Lia Courrier: “La danza e lo showbusiness, ambito in cui le regole spesso si basano sulla visibilità e sullo scambio, più che sul merito”

di Lia Courrier
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In tempi lontani, nelle corti medicee a Firenze si impone la figura del teorico e maestro di ballo e inizia così quella fase importantissima per le future sorti della danza, in cui avviene una differenziazione tra le danze popolari e quelle di corte.

Lo scopo della danza popolare è rituale, celebrativo, si danza per condividere e quindi i movimenti sono estremamente semplici e intuitivi per il corpo, proprio perché tutti possano essere coinvolti nella gioia di danzare. La danza di corte si propone invece di codificare movimenti raffinati e più complessi, creando un vero e proprio sillabario che verrà poi maneggiato nel corso dei secoli per evolversi in quella che oggi chiamiamo danza classica, in cui c’è chi danza nello spazio scenico e chi invece siede nel pubblico per guardare.

Con i successivi interventi di sovrani, maestri, didatti, pionieri, la danza diverrà un mestiere, entrando a far parte a pieno diritto del mercato del lavoro. Oggi è del tutto normale (forse più nel resto d’Europa che in Italia) che un danzatore venga assunto con regolare contratto, riceva un compenso per la sua prestazione e paghi le tasse come ogni altro cittadino. La possibilità di fare della propria passione un lavoro, con gli stessi diritti e doveri di chiunque altro, è un bene per la danza e per i danzatori ma esiste un altro lato di questa moneta da considerare: si tratta di showbusiness, ambito in cui le regole spesso si basano sulla visibilità e sullo scambio, più che sul merito.

Lo stesso Prince, uno degli artisti più brillanti nel panorama musicale della sua generazione, durante un intervento in occasione di una premiazione ha chiaramente denunciato le case discografiche (era un discorso più ampio che riguardava le minoranze etniche ma il succo non cambia) di essere interessate solo al profitto, che gli artisti non hanno molto controllo sul proprio operato quando firmano un contratto con loro e per di più percepiscono solo una piccolissima parte dei guadagni. Per chi assurge alla fama internazionale può andare bene ma per la maggior parte degli altri rimane un mondo inaccessibile che ti sfrutta e poi ti lascia come un limone spremuto.

Anche il mondo della danza risponde allo stesso tipo di regole, esiste un gruppo di persone che crea delle tendenze, parlo dei critici in primis che con il loro lavoro possono innalzare un artista verso le alte sfere dell’olimpo o distruggerne un altro anche solo ignorandolo, escludendolo da quegli strumenti mediatici che guidano gli interessi di pubblico e addetti ai lavori. In ogni generazione di danzatori c’è qualcuno che viene divinizzato e qualcun altro, altrettanto meritevole, che passa in sordina, seguito e acclamato da quei pochi che si ricordano che ciò che i critici scrivono è solo un’opinione personale e non assoluta. Questo meccanismo va a discapito anche dell’artista famoso che spesso rimane prigioniero delle aspettative di pubblico e critica, senza la possibilità di evolversi.

Anche la televisione con i suoi reality sulla danza ha mitizzato dei personaggi perché funzionavano “televisivamente” parlando. Il mondo della danza, di cui prima si conosceva solo la fase finale sul palcoscenico, viene penetrato dallo sguardo indiscreto della telecamera durante le prove e le lezioni, nella sua vita segreta, quella di cui prima non si sapeva nulla e questo può essere estremamente interessante ma solo se fatto con il dovuto rispetto e con la conoscenza culturale di ciò che si sta raccontando.

I personaggi che hanno la fortuna di ricevere questa spinta mediatica e diventare famosi accettano di offrirsi come ingranaggi fondamentali della macchina produttiva che punta più al profitto che alla ricerca artistica. Diciamolo, ci sono pochissimi artisti al mondo in questo momento (uso la parola artista per definire chi lo è davvero e non chi si definisce tale) e tra quelli più noti solo una piccola parte ha il coraggio di imporsi a difesa delle proprie idee e della propria libertà creativa, la maggior parte si muove nel flusso del già conosciuto nel tentativo di raccogliere trasversalmente consensi e visibilità tra critica e pubblico. Conosco diversi danzatori e coreografi che lavorano con grande passione e competenza a cui non viene lasciato lo spazio che meritano perché il loro linguaggio non corrisponde al trend del momento, perché non hanno nulla da offrire in cambio a chi dovrebbe programmarli o perché non sono addomesticabili.

Stessa cosa nel campo dell’insegnamento, dove chi è stato unto dal tocco della partecipazione televisiva, ammantato da un’aura di grandezza, viene chiamato da qualsiasi scuola del territorio nazionale per insegnare in stage e masterclass, con compensi da capogiro. Non voglio qui mettere in dubbio la professionalità e la sapienza di queste persone ma solo far notare come le regole della monetizzazione dell’arte influiscono non solo sul mercato ma anche sul messaggio che la danza dovrebbe veicolare a discapito di tutti, allievi compresi, che pensano di andare incontro a chissà quale esperienza formativa solo per aver fatto lezione due volte con un personaggio famoso.

Essere blasonati, insomma, fa la differenza, che sulla giacca sia appuntato lo stemma di un’accademia famosa, di un coreografo o di una trasmissione, l’importante è averne uno.

Qualcuno potrebbe pensare che sono, come si dice a Roma, una “rosicona” ma a dirla tutta non sono interessata alla fortuna degli altri, consapevole della mia inadeguatezza in questo mondo di apparenza per il quale mi mancano proprio gli strumenti essenziali, quello che osservo è però un generale appiattimento e asservimento dell’arte al potere costituito, una mancanza di spirito critico che è uno dei motivi per cui sono sempre stata attratta dai linguaggi artistici. Sono cresciuta con punti di riferimento come Rudolf Nureyev, Pierpaolo Pasolini, Italo Calvino, Artemisia Gentileschi, Elio Petri, Luigi Pirandello, Vincent Van Gogh e molti altri, tutte pure manifestazioni incarnate dell’arte nella sua veste più autentica e basta conoscere il loro pensiero per capire che oggi sarebbe molto difficile per loro farsi ascoltare, vedere, leggere proprio perché si tratta di menti eccelse che non hanno avuto timore a guardare nei meandri più scuri dell’umanità, rinunciando ad essere accomodanti e che ancora oggi fanno riflettere se non addirittura provocare sgomento con immutabile attualità.

Quello che posso fare nel mio ruolo di lavoratrice instancabile e anonima, è farmi custode degli insegnamenti di questi grandi Maestri e trasmettere ai miei studenti l’idea che la fama non è tutto per un artista, così come non si dovrebbe fare questo mestiere per appagare il pubblico, di non accontentarsi di quello che è mainstream ma andare a guardare ciò che non gli viene presentato su di un piatto d’argento, di lottare per difendere le proprie idee e rispettare la propria sensibilità artistica, accorgendosi quando questa viene soffocata in nome della visibilità, notorietà, spendibilità.

La speranza è che sia possibile ritrovare un equilibrio armonioso tra la mercificazione e libertà di espressione nell’arte, affinché ogni artista possa dire ciò che corrisponde alla sua visione del mondo senza essere censurato, ritenuto scomodo o estromesso dal mercato, che l’arte (colta e di spessore) possa tornare a pieno titolo ad essere la voce critica della socio-cultura, come lo è stata per tutti gli artisti che ho citato e che oggi sono ritenuti dei geni.

Anche questa che avete appena letto, come ogni altra cosa compaia sui media, è solo opinione personale dell’autrice.

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