Luciano Carratoni: mentalità artistica e gestione imprenditoriale

L'intervista di Emanuele Burrafato

di Emanuele Burrafato
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Musicista poliedrico, diplomato al Conservatorio di Santa Cecilia, dove attualmente insegna, Luciano Carratoni è direttore generale del Balletto di Roma. Sotto la sua guida dal 2002, la compagnia fondata da Walter Zappolini e Franca Bartolomei si è imposta come la prima compagnia privata italiana di danza, nonché la più seguita. La sua capacità manageriale lo ha portato a realizzare importanti traguardi anche nel campo della formazione. La Scuola del Balletto di Roma è stata la prima a realizzare un sistema di didattica online dopo appena venti giorni dalla chiusura totale del primo lock-down, il 9 marzo 2020, che fece da apripista a tutti gli altri istituti coreutici italiani. Lo abbiamo incontrato per parlare della sua esperienza al servizio della danza negli ultimi trent’anni di attività e delle strategie da adottare nella gestione di un’”azienda di produzione di danza”.

Cosa porta un musicista a interessarsi di danza dal punto di vista manageriale?

Il mio incontro con la danza è stato assolutamente casuale ed iniziò nel 1992 mentre programmavo la stagione dei concerti della domenica mattina al Teatro Parioli. Decisi di inserire tra le molteplici proposte musicali uno spettacolo di Flamenco. In quell’occasione capii che musica e danza creano sempre una fusione di grande forza emotiva, di cui tutti possono apprezzare le infinite soluzioni artistiche. Incontrai un nuovo mondo tutto da scoprire, reinventare e rilanciare in ogni luogo possibile, non solo nei grandi teatri Italiani destinati a pochi e soliti utenti. Cominciai a distribuire spettacoli di danza appassionandomi sempre di più, non tenendo conto delle restrizioni che il sistema teatrale Italiano imponeva alla danza in quegli anni.

In che modo ha utilizzato la sua esperienza come musicista?

La musica è la mia vita e tutto gira intorno alla sensibilità di ascolto che un musicista deve avere per fare il proprio lavoro. Ho sempre visto la mia vita professionale come una grande partitura d’opera dove non solo la musica può fare il risultato. Fin dagli anni del conservatorio e agli inizi della mia carriera da musicista sentivo il bisogno di interagire e confrontarmi con tutto il mondo artistico e assorbire tutto ciò che di affascinante potesse farmi crescere professionalmente. Sono stato sicuramente fortunato ad aver vissuto i fantastici anni Ottanta in una totale immersione artistica, senza precedenti e irripetibile, che mi ha forgiato musicalmente e non solo.

Come è arrivato al Balletto di Roma e quali sono stati gli obiettivi che si è posto?

Negli anni ‘90 diverse compagnie di danza italiana si rivolsero a me per essere aiutate a risolvere problemi gestionali, prevalentemente legati alla mancanza di circuitazione, appannaggio esclusivo della prosa e della musica. Nella lunga lista di compagnie Italiane in difficoltà c’era Il Balletto di Roma, diretto allora da Luciano Cannito, che mi presentò Walter Zappolini e Franca Bartolomei, chiedendomi di aiutarli ad uscire da uno dei momenti più difficili della loro storia. Fu così che conobbi due personalità straordinarie, lasciandomi coinvolgere in poco tempo nella risoluzione dei loro problemi, attraverso un percorso di rilancio del Balletto di Roma sulla scena nazionale e internazionale.

Da quel momento il mio obiettivo fu far crescere il Balletto di Roma trasformandolo in un brand forte e unico nel panorama Italiano e creare una prima grande struttura privata di danza.

Il nome stesso “Balletto di Roma” possedeva già un’altissima potenzialità, in più c’erano alle spalle quarant’anni di storia considerevole. Bisognava rivendicare, incrementare e rilanciare quel valore che il nome stesso imponeva. Volevo però realizzarlo con una modalità diversa da quello che avevo visto nella danza italiana fino ad allora, dove le strutture di danza nascevano esclusivamente per volontà degli artisti “tuttofare” dentro e fuori dalle proprie compagnie. Capii subito che il problema al Balletto di Roma era la mancanza di un assetto manageriale e organizzativo interno.

Andava inoltre modificata l’idea secondo cui la danza italiana non portava pubblico a teatro e che solo i grandi nomi stranieri erano in grado di farlo. Un chiaro falso storico creato da alcune lobby del sistema teatrale di allora che andava riequilibrato, visto il valore indiscusso che questa ha sempre ricoperto nella storia. Impresa quasi impossibile per l’epoca, considerato che fino a quel momento la danza Italiana viveva esclusivamente grazie ai fondi pubblici, senza portare pubblico al botteghino.

Avviare quindi un nuovo percorso che associasse all’attività artistica una chiara visione imprenditoriale…

Agli inizi degli anni 2000 presi sotto la mia guida il Balletto di Roma, quel che restava del glorioso Balletto di Toscana e due piccole compagnie romane guidate da due importanti coreografi: Mario Piazza e Milena Zullo. Benché tutte avessero rappresentato negli anni ‘90 un esempio artistico da seguire, erano accumunate dallo stesso, unico problema: grandi visioni artistiche ma completa assenza manageriale. La mia azione fu quella di riposizionare quei valori artistici all’interno di una gestione consapevole e strutturalmente adeguata alle necessità del tempo. Erano gli anni delle grandi privatizzazioni e delle fusioni industriali in Italia e grazie ad un timido incoraggiamento legislativo furono incentivate, con finanziamento ministeriale, anche quelle in ambito culturale. Una visione politica innovativa e di grande crescita per il settore, che poi misteriosamente i successivi legislatori non ritennero utile portare avanti, preferendo la nascita smisurata di centinaia di micro realtà culturali che, ancora oggi, il sempre più “asciutto” sistema teatrale italiano fatica a soddisfare.

Quali furono i primi passi intrapresi?

Puntare parallelamente sulla qualità artistica del Balletto di Roma e su quella del suo staff organizzativo, fino ad allora insufficiente per le sfide che ci attendevano e che ci eravamo prefissati con Zappolini e Bartolomei. Quindi posizionare la compagnia in fascia di mercato alta e rendere sempre più forte il brand “Balletto di Roma”. Per far questo bisognava assicurare alla compagnia un mercato teatrale importante; scelsi quindi un titolo autorevole: il Romeo e Giulietta di Fabrizio Monteverde, rilevato dallo storico e fino ad allora indiscusso Balletto di Toscana e nel 2002 iniziai una tournée che realizzò 98 recite in tre mesi e mezzo. Quei 98 spettacoli in teatri pieni di pubblico pagante, in un momento in cui tutte le compagnie di danza italiane erano prive di distribuzione, diedero una spinta positiva al mondo del teatro e fecero capire che il Balletto di Roma avrebbe potuto aprire nuovi varchi distributivi per la danza.

Fin dal debutto di Romeo e Giulietta al Teatro Sistina, si ebbe subito l’idea di cosa stesse accadendo dentro al Balletto di Roma e dopo anni, anziché conteggiare come tutte le compagnie di danza i borderò, si cominciarono a contare gli spettatori, sempre più numerosi al botteghino. Da allora sono passati più di vent’anni e 700 mila persone hanno applaudito il Balletto di Roma in Italia e nel mondo come nell’ultimo straordinario China Tour 23 lo scorso settembre.

E per quanto riguarda la formazione? il Balletto di Roma oggi possiede una delle scuole di danza più prestigiose.

Alla fine del 2010 mi resi conto che il grande problema della danza italiana era, ed è ancora purtroppo, dovuto alle carenze del sistema formativo. Un problema legislativo assurdo, caso unico ormai in Europa, che dilaga inesorabilmente verso un caos formativo senza precedenti. Caos legislativo che ogni anno spinge decine di giovani danzatori senza nessuna prospettiva a lasciare il nostro paese per inseguire all’estero i propri sogni. Questo problema strutturale della formazione coreutica in Italia mi fece decidere che non poteva esistere una grande compagnia senza una propria importante scuola di danza, dove poter formare e poi scegliere talenti per i propri organici produttivi. Infatti nel 2012 insieme a Walter Zappolini, per rilanciare la nuova scuola, chiamammo una figura storica della formazione italiana: Paola Jorio, che accettò la sfida di iniziare con noi questa nuova avventura, come era successo dieci anni prima per la compagnia. La grande passione per la danza e gli insegnamenti di Walter e Paola fecero la differenza nei primi duri anni di attività. Oggi raccogliamo i frutti di quel periodo, aggiungendo ogni anno, tramite il nostro corso di avviamento professionale (CAP), nuovi danzatori negli organici delle nostre produzioni.

Una grande soddisfazione per il lavoro di noi tutti e per la gioia dei nostri migliori talenti, che hanno scelto di formarsi nella nostra scuola.

Quando lei parla di caos nel sistema formativo della danza italiano, cosa intende precisamente?  Su cosa occorrerebbe intervenire secondo lei?

Prima di tutto considerare che la formazione coreutica non è statica e che c’è bisogno di guardare avanti con onestà e trasparenza. Quello che si impartiva un secolo fa, oggi può essere preso solo come punto di partenza non certo come traguardo formativo. Il punto di arrivo oggi è in continua evoluzione e rende impercettibile il confine tra formazione e professione. Credo che la cosa più saggia sarebbe introdurre il concetto di “formazione continua sia per il docente che per il discente” ed abolire definitivamente piani di studio chiusi e dettati da norme ministeriali, spesso scritte senza alcun senso sulla formazione pratica dell’allievo. Chi, come me, assume danzatori da decenni sa perfettamente che non basta un diploma accademico di primo e di secondo livello per formare un danzatore, ma occorrono le migliaia di scuolette di periferia, disseminate in ogni piccolo centro urbano italiano, per scoprire e formare giovani talenti. Liberalizzare la scuola coreutica Italiana con nuove regole è la prima cosa da fare in fretta, prima che diventi troppo tardi.

A chi gioverebbe liberalizzare la formazione coreutica?

Ci sono degli scenari macro, pensiamo per esempio alla urban dance, che in Italia non è mai stata presa in considerazione, perché fenomeno di strada non incluso tra le “discipline nobili da finanziare”. Se andiamo a guardare in rete, vediamo milioni di ragazzi che si dedicano a queste materie, molti di più rispetto a quelli che fanno danza classica o contemporanea. Sono segnali che ci vengono dati dai ragazzi di strada, che di strada non sono più, ma rappresentano l’intera società che dagli anni ‘80 ha cominciato ad appassionarsi a nuovi linguaggi della danza. Linguaggi sempre più aperti alle contaminazioni, anche estreme, perché sensibili ai continui cambiamenti dinamici che la globalizzazione mediatica alimenta. Un mondo sempre in continua evoluzione fatto di grande preparazione atletica e tecnica e, per me, superiore a quelle discipline considerate nobili solo perché riconosciute dal sistema.

La danza di sistema, classica e contemporanea, dovrà prima o poi rendersi conto che esistono altri stili e linguaggi, seguiti da milioni di adolescenti, che hanno pari diritto di riconoscibilità formativa e mi auguro un giorno anche professionale.

Come riesce a mantenere viva l’attenzione del pubblico che segue il Balletto di Roma?

Oggi la cosa più difficile è capire come arrivare al pubblico di domani, che poi è quello di oggi ma non è più quello di ieri. Un tempo gli spettatori erano circoscritti ai soliti abbonati che duravano a vita. Ne conquistavi uno giovane di zona e te lo portavi avanti per decenni. Il pubblico dei nostri giorni è in continuo movimento e in continua evoluzione culturale per gli stimoli che gli arrivano quotidianamente dai social, che sono la disperazione di questa epoca, ma di cui non si può più fare a meno. Noi al Balletto di Roma siamo sempre stati attenti alle esigenze del pubblico seguendolo e dandogli, con grande rispetto, prodotti di alta qualità e di grande impatto emotivo. Non ci siamo fermati nemmeno nel periodo della pandemia, quando ho voluto che si realizzasse Première, la prima produzione coreografica online, mediante il collegamento tra il coreografo Andrea Costanzo Martini, bloccato a Tel Aviv, e i danzatori della compagnia nelle sale di Roma.

Dopo la pandemia abbiamo ripreso numeri fermi al 2015, quando l’introduzione delle nuove regole per lo spettacolo decretarono la fine del giudizio del pubblico a favore della visione assoluta dell’artista e degli operatori culturali, che insieme ne provocarono in poco tempo un lento ma costante allontanamento. Oggi qualcosa è cambiato: siamo tornati a cifre in alcuni casi superiori a quelli degli ultimi venti anni. Basti pensare ai 2.600 spettatori, realizzati dal Balletto di Roma nello scorso novembre, in un solo giorno, con doppia recita, al Teatro Verdi di Firenze, con Il lago dei cigni di Monteverde. Lo stesso spettacolo dal 17 al 22 ottobre al Teatro Olimpico di Roma ne aveva totalizzati 5.200, che sommati a quelli dello Schiaccianoci di Massimiliano Volpini, nelle quattro giornate di dicembre, portano a un totale di 9.000 spettatori: una quantità considerevole raggiunta in meno di due mesi e con soli dieci giorni di programmazione. Numeri che insieme ai 40 mila spettatori del balletto di Roma nell’ultimo anno fanno ben sperare per il futuro del Balletto di Roma e della danza italiana.

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