Lia Courrier: “Nureyev, Fonteyn, Vasiliev: è necessario far conoscere alle nuove generazioni le stelle del passato”

di Lia Courrier
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In una frase che è leggenda, George Balanchine ha dichiarato il suo desiderio che ogni spettatore, assistendo alle sue creazioni, potesse sperimentare l’esperienza di “vedere la musica e ascoltare la danza”. Questo significava fare coreografia per un artista in cui convogliavano sia il coreografo che il musicista.

Rudolf Nureyev nella sua “lettera alla danza” scrive: “Non avrei mai fatto il ballerino, non potevo permettermi questo sogno, ma ero lì, con le mie scarpe consunte ai piedi, con il mio corpo che si apriva alla musica, con il respiro che mi portava sopra le nuvole. Era il senso che davo al mio essere, era stare lì e rendere i miei muscoli parole e poesia, era il vento tra le mie braccia, erano gli altri ragazzi come me che erano lì e forse non avrebbero fatto i ballerini, ma ci scambiavamo il sudore, i silenzi, la fatica.”

Vaslav Nijinsky, nei suoi incredibili e toccanti diari scrive: “Io ho paura delle persone perché loro mi capiscono ma non mi sentono. Ho paura delle persone perché vogliono che io viva come loro. Vogliono che danzi cose allegre. Io non amo l’allegria. Io amo la vita.”

Quanta umanità e profondità in queste anime in cammino. Prima ancora di essere grandi artisti erano persone che avevano affrontato l’avventura sul piano terreno con grande determinazione e senza paura di essere esattamente ciò che erano predestinati a diventare, liberi da ogni convenzione e condizionamento.

Abbiamo vissuto un’epoca in cui gli artisti erano ammantati di mistero, sembravano delle creature soprannaturali, li si vedeva sulla scena, dove liberavano questa creatura selvaggia e vorace chiamata creatività, energia potente che lascia le vene stremate e i sensi inebriati al suo passaggio, concedere giusto qualche autografo dopo lo spettacolo e poi svanire nell’oscurità della notte.

Non sono un’amante della pratica di aspettare gli artisti fuori dai teatri perché so quanto si può essere stanchi dopo un simile sforzo, di solito applaudo forte alla fine della performance per poi dileguarmi. Molti fan hanno rimproverato a Rudy la sua riluttanza a intrattenersi con chi lo aspettava fuori dall’uscita degli artisti ma mettetevi nei suoi panni: aveva già dato tutto sulla scena, che altro volete ancora? Qualche volta però, magari perché conoscevo qualcuno del cast ed ero lì ad attendere gli amici, mi è capitato di vedere queste stelle della scena uscire dal teatro ed è incredibile come mi siano sembrati diversi da come li avevo visti sul palcoscenico.

Ricordo quando ho avuto il privilegio di lavorare in una produzione con la direzione del maestro coreano Myung-whun Chung. Me ne stavo sempre incollata davanti al monitor che era stato predisposto in quinta per il coro a bocca chiusa dell’opera di Puccini Madama Butterfly, ero totalmente rapita dalla sua gestualità, sembrava che le sue dita danzassero nell’aria con infinita grazia, come se riuscissero a toccare delicatamente ogni strumento nel golfo mistico. All’improvviso i suoi movimenti si facevano più densi e ampi per pompare la potenza drammatica della partitura, ogni dettaglio del racconto impregnava quelle braccia, quella mani e quel volto, è stata un’esperienza profonda vederlo dirigere e ascoltare le indicazioni che consegnava a tutti.

Un giorno tornavo dalla pausa pranzo e distrattamente mi accorgo di incrociare un uomo orientale sul mio cammino. Non appena superato, la mia collega mi dice: “hai visto? Era il maestro che va a farsi un giro”. Mi giro sbigottita e osservo quest’uomo, che sul podio mi sembrava un gigante, camminare lentamente nel caos cittadino. Abbigliato in maniera molto semplice, di statura piccola, con le spalle un po’ cadute in avanti e una faccia stanchissima, quasi come se stesse per scivolargli giù dal cranio. Ancora una volta sono stata stregata dall’energia di un artista, che manifesta la sua bellezza solo quando la creatività sgorga libera come una sorgente.

Sono dettagli importanti da notare, questi.

Oggi siamo ormai abituati alle foto sulle copertine delle riviste di danza, spesso processate in post produzione per donare a quell’immagine una patina di perfezione innaturale e irraggiungibile, alla stregua delle foto di moda. La perfezione dei corpi, la bellezza dei visi, la pelle senza alcuna irregolarità, le gambe dalle linee perfette, le estensioni estreme. Tutto sembra spingere a focalizzarsi sull’appagamento del senso della vista, a pensare che la danza sia una serie di forme meravigliose da riprodurre e in fondo credo siamo tutti d’accordo nel dire che questa sia la direzione in cui si sta andando, eccezioni a parte.

Qualche anno fa avevo proposto dei video da guardare ai miei allievi, tra cui uno dove Merle Park e Rudolf Nureyev danzano il passo a due dello schiaccianoci con le coreografie di Rudy, una delle più complesse tecnicamente e musicalmente. Con mia grande sorpresa l’esecuzione della signora Park non è stata gradita, indicata come “non molto brava” e secondo me non è una questione di cultura dal punto di vista cognitivo o nozionistico, credo si tratti più di una mancanza di sensibilità artistica per una generazione che ormai da anni viene bombardata da queste immagini perfette, estreme, patinate e da ballerini che si mostrano solo per tecnicismi e virtuosismi. Si apprezza solo quell’aspetto dell’arte e non si è più in grado di percepire la raffinatezza che sta nei dettagli.

Persino Margot Fonteyn, la divina, potrebbe essere soggetta a critiche perché non aveva l’arabesque a grattarsi la tiara e non faceva tremila pirouettes ma se solo si smettesse di “guardare” e si cominciasse a “sentire” ecco che quell’interpretazione smuoverebbe qualcosa dentro. Quando poi vai a leggere in che modo la sua storia si è intrecciata con quella di Rudy capisci cos’è quello struggimento, quell’emozione disarmante che tocca le corde più nascoste del cuore quando li vedi danzare insieme, con i loro corpi a trovarsi in ogni istante come se fossero uno.

Sono certa che anche oggi ci siano stelle del balletto capaci di emozionare così, ma poiché il pubblico impazzisce per ogni tipo di impresa acrobatica (che comunque eseguivano anche le stelle del passato, basta pensare a Vasiliev, intendo Vladimir non Ivan, o anche Alicia Alonso per rimanere sconvolti dalle loro capacità atletiche, anche se questa non era una caratteristica così importante allora) gran parte dello sforzo oggi è focalizzato in questo aspetto, che tra l’altro ha vita breve poiché l’apice della forma fisica per un ballerino rappresenta un limitato lasso di tempo e penso che sarebbe bello assistere anche ad una maturazione artistica anziché, come spesso accade, vederli rimanere attaccati all’immagine giovanile di sé, cercando di mantenere lo stesso repertorio con risultati che certamente non valorizzano la loro danza.

Una variazione ben fatta, con elementi tecnici perfettamente eseguiti, sicurezza e maestria è una cosa che molti danzatori possono fare, anche molto giovani, come possiamo vedere nei vari prestigiosi concorsi internazionali, ma rendere credibili e veri personaggi come Giselle o Odile è impresa per pochi e per me la danza è tutta lì, nel momento in cui la tecnica diventa mero strumento e l’interprete svanisce dietro alla verità del personaggio che interpreta. Se vogliamo che la danza non si trasformi in una pratica ginnica è necessario far conoscere alle nuove generazioni le stelle del passato, aiutarli a recuperare quella sensibilità e apertura di cuore che li faccia andare oltre il piano materiale dell’anatomia per apprezzare quello energetico e spirituale che secondo me, anche antropologicamente parlando, più appartiene a quest’arte.

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