Vittoria Maggio: “Tangos, L’esilio di Gardel”

di Vittoria Maggio
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“L’esilio è un’assenza, un’assenza prolungata, equivale a una morte, chi di noi non è morto un po’ in questi anni?”

Tangos, L’esilio di Gardel è un film drammatico del 1985 di Fernando Ezequiel Solanas, meglio conosciuto come Pino Solanas. Regista argentino militante, Solanas era esponente di spicco del cosiddetto terzo cinema, che cercava di rispondere all’esigenza politica di riflettere e agire sulla storia del Paese.

E’ morto a Parigi qualche giorno fa 84enne nella città che lo ha accolto negli anni duri e bui, dove era arrivato a svolgere le funzioni di ambasciatore di Buenos Aires presso l’Unesco. Parigi ha sempre accolto gli esuli dell’arte creando cosi quel prezioso bacino variegato di artisti che ha regalato al mondo livelli culturali forse oggi inarrivabili.

Solanas ha esordito nel 1968 con L’ora dei forni, film documentario dedicato a Che Guevara, girato durante l’atmosfera rivoluzionaria, grazie al quale è diventato punto di riferimento per il cinema politico e militante sudamericano. L’Argentina oltre a essere simbolo di dittatura nell’immaginario socio culturale universale, è anche per definizione il tango e Solanas coglie l’occasione nel 1985 per raccontare la storia amara del suo Paese tramite il ballo che la rappresenta. Per noi ballerini il film Tangos- L’esilio di Gardel appartiene al percorso culturale che grazie a questo ballo condividiamo.

Ambientato verso la fine degli anni settanta narra di un gruppo di artisti argentini in esilio a Parigi che cercano di mettere in scena uno spettacolo di musica e danza, per uscire dall’apatia dell’esilio. Lo spettacolo, in cui convivono contenuti politici e personali, è lontano dai gusti europei e non andrà mai in scena.

La ricerca del finale sarà infatti ansiosa, quel qualcosa che non riesci mai ad afferrare e sarà quindi lasciata deliberatamente aperta.

Parte del film è una meravigliosa playlist di brani di tango, con alcuni pezzi inediti, le musiche originali di Astor Piazzolla, la voce di Carlos Gardel e l’orchestra di Osvaldo Pugliese che vediamo suonare il pianoforte in più di una scena nella famosa milonga parigina, una delle più belle sale da ballo della città Le Balàjo.

Lo spettacolo viene definito una tanguedia, l’unione cioè di tango, tragedia, commedia per il mix di emozioni che porta in scena in un disordine apparente che deve essere organizzato secondo il concetto che “la bruttezza è necessaria per arrivare alla bellezza”. È uno dei principi della tanguedia sui quali riflettere per il quale raggiungere la perfezione è uguale alla morte e quindi viva l’imperfezione e viva la vita!

Il tema centrale del film è però l’esilio, inteso come assenza di ciò che è caro al cuore. Forse, per intendere che cosa sia l’esilio, bisogna parlare con un esiliato. Ma in esilio oggi ci siamo tutti: il 2020 ha costretto ognuno di noi all’esilio da qualcosa che amiamo profondamente, da una casa, da un lavoro, da una persona, da un abbraccio, da un amico, dalla danza, dal tango che, come poche volte è accaduto nella storia, è stato proibito universalmente.

Non si può più ballare tango in nessun posto al mondo. Era l’unico ballo che si ballava in ogni angolo del mondo. Era un’unica lingua universale. Era l’abbraccio del mondo.

L’abbraccio, tipico e unico di questo ballo, da cura scientificamente riconosciuta è diventato potenziale malattia.

La danza in ogni sua declinazione, riconosciuta dalle scienze più moderne come prezioso alleato del benessere psicofisico dell’individuo, è diventata oggi ipoteticamente portatrice di malattia.

Tutti noi siamo in esilio da marzo con la speranza di tornare prima o poi a casa, in quella vera, quella dove abita il nostro cuore, con l’aspettare fiducioso di riabbracciarsi quando ci si incontra e con il miraggio per noi ballerini di tornare stabilmente in sala danza.

Il film di Solanas è quindi di un’attualità sorprendente non solo nelle coreografie, nell’impianto strutturale, nella scelta di visi ed espressioni, negli abiti e nelle nudità. Lo è anche nel contesto odierno e nei temi che tratta come la ricerca di un paese, di una città che ti accolga “cosi come sei”, come cantano i bravissimi artisti in uno dei brani più contemporanei, filo conduttore e ritornello del film: “Un pais donde puedo ser yo”. Una città dove potere essere se’ stessi, lavorare, pensare, mendicare, vivere in libertà.

Nel film aleggia, con tanto di ali, dipinto sul muro la figura di Carlos Gardel col suo tipico sorriso stampato in faccia: la voce del tango per eccellenza entra in scena nel finale sulle note di Volver, il tango del ritorno. Gardel risponde, alla richiesta degli amici di cantare, “Non canto più, sono vecchio” e appoggia delicatamente il suo disco in vinile sul giradischi che inizia a cantare al suo posto. Scena geniale, magistrale, metateatro, metacinema.

Una domanda e una risposta ci fanno riflettere:

“Che cosa è essere vecchi?”

“E’ non avere più voglia”

Questo nostro esilio tende a farci invecchiare, come ogni esilio che spegne sogni, desideri e pensieri che mantengono viva la nostra giovinezza interiore.

Non abbiamo più voglia.

C’è grande bisogno invece di avere voglia, di provare a inventarsi ogni giorno qualcosa e soprattutto di chiedersi come nel film:

“Perché non ci poniamo più domande?”

Ecco perché per i più attenti osservatori, la nostra rubrica ha cambiato titolo: non demanda più la responsabilità della vita fuori da noi ma la riporta dentro di noi: da Finché c’è tango c’è vita a Finché c’è vita, c’è tango!

Un abbraccio e siate felici!

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