Lia Courrier: “Moltissime persone scelgono un percorso professionale nella danza. Il risultato? Un esercito di insegnanti senza esperienza di palco”

di Lia Courrier
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Insegno danza da vent’anni e nelle mie classi si sono succeduti tanti giovani danzatori in apprendimento. Poiché ho sempre collaborato con centri di formazione professionale, nei primi anni di esperienza gli studenti avevano una manciata di anni meno di me, mentre oggi quando leggo le loro date di nascita mi rendo conto che potrei essere la loro mamma e in men che non si dica sarò la loro nonna, dato che qui il tempo sembra scivolare tra le dita come sabbia, a forza di tendus e grand battements.

In questi anni ho potuto riconoscere nelle loro strategie di vita uno specchio dei cambiamenti che si sono operati in questo bellissimo e sfortunato paese che amo tanto, lo “stivale” d’Europa, definizione quanto mai calzante (scusate il gioco di parole ma ci sta) dal momento che l’Italia è da considerarsi pienamente una periferia meridionale e depressa dell’Europa sia dal punto di vista economico che sociale, politico e soprattutto culturale.

Negli ultimi anni molti teatri sul territorio nazionale hanno chiuso uno dopo l’altro, anche in città che si vantano di essere cosmopolite, come Milano, dove ormai l’unico momento di radiosità e sbrilluccichio è la settimana della moda, evento seguitissimo dalle star di tutto il globo che vengono qui a farsi fotografare alle sfilate, luoghi esclusivi dedicati all’intrattenimento di pochi, mentre la città cerca di continuare la propria routine iper cinetica, un po’ infastidita da questo bizzarro carrozzone che invade ogni luogo.

La premessa al discorso che sto per argomentare è che le prospettive di realizzazione in quanto artista sono veramente esigue, chi intraprende il difficile percorso della formazione coreutica sa già cosa si troverà davanti una volta portata a termine questa fase. Quando si parla delle criticità che noi adulti possiamo osservare nelle cosiddette “nuove generazioni”, a mio parere bisognerebbe guardare alla situazione italiana, detentrice di specificità che la rendono un caso unico nel più generale quadro europeo.

Una delle osservazioni più diffuse negli ultimi anni riguarda la difficoltà manifestata dai ragazzi nell’incassare un rifiuto, sia esso in ambito familiare, relazionale o scolastico/lavorativo. Questa tendenza emerge in modo drammatico nella formazione coreutica, ambito talmente  competitivo che distinguersi dalla massa spesso comporta percorrere un sentiero lastricato di insuccessi e rifiuti, di cadute e coraggiose rialzate. Ho capito in questi anni che la caratteristica vincente per chi vuole intraprendere questa carriera non è tanto un corpo perfettamente dotato per la danza ma carattere, determinazione e caparbietà. Questi gli ingredienti necessari per raccogliere risultati a lungo termine, insieme ad una certa intraprendenza e una buona dose di autentica, sana sicurezza in sé stessi. Vedo molti giovani danzatori fermarsi ai primi insuccessi alle audizioni, gettare la spugna della scena per dedicarsi ad altro, che può essere un netto cambio di direzione per abbracciare un diverso percorso professionale, oppure riguarda l’insegnamento della danza. Nulla di male, anzi, c’è bisogno di bravi insegnanti che hanno ricevuto una formazione completa e professionale come danzatore, però sono fermamente convinta dell’importanza dell’esperienza scenica per poter insegnare danza, perché infine lo scopo ultimo del danzare è proprio quello. Non occorre diventare primi ballerini dell’ABT, è sufficiente aver vissuto sulla propria pelle e sul proprio corpo, quotidianamente, la professione della danza, l’autodisciplina, il senso di responsabilità, la capacità di adattamento e la focalizzazione mentale che questo mestiere comporta.

Dato l’altissimo numero di persone che oggi scelgono percorsi formativi professionali di danza, nonostante la nota assenza di possibilità lavorative nel paese, il risultato è che ad oggi abbiamo un esercito di insegnanti di danza, molti dei quali senza alcuna esperienza di palcoscenico alle spalle, eccezion fatta per i saggi di fine anno.

Ultimamente osservo farsi strada la scelta di rinunciare a priori persino a partecipare alle audizioni, per timore di un insuccesso. Quand’ero giovane ho partecipato ad audizioni per le quali sapevo di non avere alcuna possibilità di essere scelta ma quando potevo mi giocavo il tutto per tutto, andavo a farle lo stesso perché era per me lampante come quello fosse un contesto in cui potevo confrontarmi con gli altri, imparare a gestire le emozioni, dare il meglio possibile, farmi vedere, essere parte del fiume di artisti che abita il mercato del lavoro e questo è importante, non si va alle audizioni solo per essere scelti, fa proprio parte delle competenze professionali nuotarci dentro con stile.

Credo che l’atteggiamento di ritrarsi davanti alle prove sia figlio di una serie di concause. Una  è certamente l’insicurezza profonda, l’auto-giudizio, il timore di un rifiuto di cui abbiamo già parlato, ma a questa io aggiungerei anche le altissime aspettative che pesano sui giovani come una spada di Damocle. In Italia si parla sempre della “fuga di cervelli” e di “eccellenze”, come se solo il genio fosse meritevole di successo, nessuno si occupa di chi non ha vinto la lotteria della genetica secondo i loro parametri. La società italiana vorrebbe essere competitiva a fronte di un apparato formativo che fa acqua da tutte le parti e quindi mi chiedo: come potranno mai questi ragazzi ad essere cittadini del mondo (come i tempi richiedono) e anche professionalmente concorrenziali, quando all’estero il livello tecnico e culturale è infinitamente più alto?

Percepisco profonde fragilità nei ragazzi che si manifestano in vario modo, coscientemente o meno, sembra che il messaggio di fondo per loro sia: “o eccelli o lasci perdere. O tutto o niente. O conquisti la vetta o altrimenti ti accontenti di essere un signor nessuno” e questo ai miei occhi è da considerarsi un programma psichico altamente tossico e pericoloso.

Esistono diversi tipi di talento e di intelligenza, ogni individuo ha i propri tempi per vederli, riconoscerli, svilupparli, anche con una modalità personale, senza necessariamente passare per lo stesso percorso fatto da altri, senza per forza voler scalare le vette (luoghi alquanto inaccessibili e con poco spazio, non adatte a tutti). Osservo come i progetti di vita di questi ragazzi vengano spesso indotti dalla famiglia, dalla scuola, dalla società, che li spinge verso il raggiungimento di obiettivi altissimi e in breve tempo così, quando le cose vanno in modo diverso dalle aspettative, anziché prenderla come un’occasione per guardare verso nuove opportunità, il presunto fallimento diventa un fardello troppo pesante da sopportare.

A questo si aggiunge la difficile situazione del panorama lavorativo italiano che costringe molti giovani a restare nella casa dei genitori per un tempo incredibilmente superiore rispetto a ciò che accade nel resto d’Europa, dove i ragazzi sono molto più indipendenti e responsabilizzati. Complice anche la cultura familiare italiana, in cui i figli vengono accompagnati e serviti come se fossero incapaci di fare le cose da soli, con la migliore delle intenzioni possibile ma questo non li aiuta certo a gettarsi nel mondo con quel misto di fiducia e incoscienza che dovrebbe essere proprio della giovinezza, sapendo di poter anche sbagliare, di potersi prendere il tempo per comprendere, fermarsi per guardare dove si vuole andare.
Non è la fine del mondo se accade.

Sta a noi adulti dare l’esempio e guidarli verso l’emancipazione e la scoperta del proprio sé autentico, affinché possano finalmente vedere la strada che l’universo ha tenuto in serbo per ognuno di loro.

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