George Balanchine: “Sono circa 465 opere”

Il 22 gennaio del 1904 nasceva a San Pietroburgo George Balanchine

di Elio Zingarelli
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Nato il 22 gennaio 1904 a San Pietroburgo da genitori georgiani, Georgi Balanchivadze dopo il diploma alla Scuola Imperiale di Balletto con maestri che avevano collaborato con Petipa alle produzioni originali della Bella addormentata e del Lago dei cigni, studia anche teoria musicale e pianoforte al Conservatorio di Musica di San Pietroburgo. Si unisce alla Compagnia di Danza Imperiale all’età di 17 anni, nel 1921, e per questo corpo di ballo realizza un’opera intitolata Enigmas.

Ma già in questo periodo inizia a focalizzare le sue energie su sperimentazioni coreografiche esterne alla compagnia. Quando la rivoluzione destabilizza il fastoso mondo imperiale, nell’estate del 1924, insieme a Tamara Geva, Alexandra Danilova e Nicholas Efimov, emigra in Francia, dove diventa coreografo per i Ballets Russes di Diaghilev per cui mette in scena una nuova versione del balletto Le Chant de Rossignol. L’impresario intuisce subito le sue abilità tanto da suggerire a Ninette de Valois (membro della sua compagnia e poi fondatrice, nel 1931, del Sadler’s Wells Ballet, in seguito The Royal Ballet) e alla Danilova: “Lui è un genio”.

Diaghilev, come fece con Nijinsky, si occupa della sua formazione artistica mandandolo nelle gallerie, nei musei e nelle chiese. Un apprendistato culturale che il coreografo, successivamente, considererà prezioso per la sua attività coreografica: immaginiamoci Balanchine nella Cappella Sistina, forse a distanza ravvicinata, che osserva già coreografando quel dito contratto nell’ultima falange di Adamo che si stacca dal dito teso del Creatore. Nel 1933, sempre nella capitale francese, Balanchine fonda la sua prima compagnia, Les Ballets 1933, collaborando con figure artistiche di spicco come Bertolt Brecht e Kurt Weill. Ma è il 17 ottobre del 1934 che su invito di Lincoln Kirstein, il coreografo si insedia negli USA, a New York, dove, travolto dalla vitalità e dalla’imprenditorialità americana cofonda prima la School of American Ballet e poi, nel 1948, il New York City Ballet che dirige fino alla sua morte.

 Serenade, il primo balletto realizzato da Balanchine negli Stati Uniti, sulla Serenade for Strings di Peter Ilyich Tchaikovsky, è un’ottima rappresentazione di ciò che è solito dire, ovvero “Usa ciò che hai”, e mostra la sua abilità di elevare ad arte il semplice atto di predisporre dei modelli e delle figure. A proposito della formazione di apertura di Serenade il coreografo afferma: “Somiglia agli aranceti della California.”

Ma Balanchine, appunto, guarda soprattutto ciò che ha: ovvero, i suoi danzatori con le loro personalità, i loro corpi “moderni”, le loro ossessioni e manie. Le sue coreografie sono fatte su e per i ballerini dai quali pretende che si attengano a un’esecuzione pulita e musicalmente precisa dei passi non solo perchè fiducioso nelle leggi ordinate del balletto e della musica ma anche per evitare che egoismi ed egocentrismi possano contaminare il suo lavoro che consiste in musica da vedere e danza da ascoltare.

Mr.B (alias Balanchine), figlio di un compositore, ha gusti musicali ampli e impegnativi: fa balletti su musiche di Bach, Mozart, Gluck, Schumann, Brahms, Hindemith, Bizet, Ravel, Glinka, Vivaldi, Verdi, Corelli, Drigo ma soprattutto Igor Stravinsky con il quale è solito interagire a un livello profondo come intimo, per il coreografo, è il rapporto tra partitura musicale e danza.

Già Apollon Musagète (1928), ribattezzato Apollo nel 1957, che ripropone quel fuggevole contatto ammirato qualche anno prima dal coreografo a Roma, testimonia il suo intento di trasformare il balletto in un’illustrazione della musica e, insieme, di “trasformare il suono in movimento”. Il coreografo sostiene che:

“La musica è come un acquario. Come il pesce si muove nell’acqua in cui vive così la musica è intorno a noi.”

È un’affermazione che denuncia tutta l’imprescindibilità della musica senza la quale non può esserci danza di cui Balanchine non enfatizza la perfezione bensì la precisione e la chiarezza della geometria fisica. Per realizzare il suo balletto definito neoclassico, Balanchine, con modalità novecentesche, opera una stilizzazione del canone classico e nel contempo una rivitalizzazione della tecnica accademica forzandone le regole e i limiti, rivelando la sua fondamentale qualità formativa e duttilità semantica. Il balletto neoclassico, il più delle volte non narrativo, balletto puro, frequentemente è stato definito astratto.

“Spesso significa senza storia” – dichiara Balanchine – “ma deve esserci un significato. Vedere le persone che si incontrano, una che dà la mano, altre che si abbracciano, ha già un significato.”

Formalismo, geometria e narrazione connotano il suo stile deromanticizzato e ispirato essenzialmente alla musica, in alcuni casi anche la stessa con la quale nel corso degli anni instaura relazioni differenti. In definitiva si parla di una “musica del corpo”, ovvero un’esigenza di trasferire nell’organizzazione coreografica l’architettura della composizione musicale. Un‘intenzione ereditata e fortemente indagata da William Forsythe considerato il più “autentico erede di Balanchine” e con il quale condivide anche l’esigenza di emigrare per trovare il giusto riconoscimento del proprio statuto artistico.

In realtà Parigi, Londra, Monaco e poi la cittadinanza americana non affievoliscono mai in Balanchine il ricordo della bellezza e dell’eleganza della corte imperiale: già in Serenade, il coreografo evoca l’eredità russa di Tchaikovsky e di Marius Petipa che considera il “mio padre spirituale” oltre che il maggior creatore di danza di cui vuole resuscitare il suo spirito, appunto, creativo. La perfezione quasi ipnotica del Regno delle Ombre della Bayadère (1877) realizzato dal coreografo francese riecheggia nella purezza di molti suoi balletti astratti. D’altronde Mr. B asserisce che la tradizione sia più forte della sua negazione e che assorba il nuovo con estrema rapidità. Anche fuori dalla scena si circonda di espatriati russi: amministratori, pianisti e insegnanti de La School of American Ballet e il New York City Ballet sono fuggiti dalla madrepatria e spesso vengono invitati dal coreografo a casa sua la mattina del giorno di Pasqua per assaporare i piatti tipici della cucina russa.

Ma ben oltre le reminiscenze e le tentazioni gustative e olfattive, nel 1962 e poi nel 1973 Balanchine ritorna in Russia con la sua compagnia che si esibisce sul palcoscenico del Teatro Mariinsky. Deluso dello stato in cui versa la situazione coreutica russa, rientrato in America ama citare dall’Ingegno porta guai di A. Griboedov, la storia di un esule russo che tornato in patria rimane fortemente scosso dall’arretratezza del suo paese e torna nuovamente in Occidente.

Proprio qui, sfiduciando una distinzione tra arte alta e arte popolare Balanchine spazia dal musical al cinema, dalla televisione al circo: accetta la richiesta di realizzare una coreografia per 14 elefanti e lui stesso commissiona a Stravinsky la partitura. In tutti questi ambiti opera come un semplice artigiano o un cuoco, come lui stesso si definisce, che mescola e assembla gli ingredienti alimentando la sua compagnia, senza alcun atto di creazione, parola che detesta quando utilizzata dai critici per descrivere le sue opere di danza.

Assiste a quasi tutte le recite dei suoi spettacoli dal suo posto dietro le quinte senza tralasciare alcun dettaglio e lavora fino alla fine coreografando anche il suo requiem così come ha fatto Tchaikovsky. Adagio Lamentoso (1981) (che comunque non è il suo ultimo lavoro e che da allora non è stato più allestito) sul quarto movimento della Sinfonia n. 6 in si min. op. 74, detta Patetica, palesa un gruppo di angeli con le ali dorate, una processione di monaci che si dispongono sul palco a forma di croce e alla fine un bambino vestito di bianco che solo al centro del palco buio con un soffio spegne la candela insieme al cessare della musica.

Così Balanchine saluta il palcoscenico mentre il suo addio alla vita lo dà la mattina del 30 aprile del 1983. I suoi funerali sono celebrati tre giorni dopo in una chiesa russo ortodossa con gli stessi rituali profumati d’incenso che il coreografo ha conosciuto fin dalle prime frequentazioni giovanili dei luoghi di culto a San Pietroburgo: la sera il New York City Ballet danza come previsto.

Innovatore, amante del rischio, Balanchine combina consonanza e dissonanza, transigente rigorosità e velocità, luminosità e musicalità, linearità e vorticosità in un’opera di danza che con modesta e moderata teatralità tratta del fato, dell’amore, della sottomissione, del dolore, della separazione, della morte attraverso, o sarebbe meglio dire come, un movimento antiemotivo e antididascalico, puro dinamismo nello spazio, al di là di ogni motivazione emozionale e diretto coinvolgimento personale. Una sobrietà interpretativa ed espressiva che consente ai danzatori di esprimere l’emozione non soffrendo in prima persona, e al pubblico di vedere l’emozione senza sentirla.

Quando qualcuno chiedeva a Balanchine di cosa trattasse un balletto, era solito rispondere: “sono circa 28 minuti.” Allo stesso modo, per scansare un pericoloso sbandamento in cui si potrebbe incorrere attraversando il suo corpus di opere tanto vasto quanto diversificato potremmo riferirci a questo semplicemente come: “sono circa 465 opere”. (Il dato numerico è riportato nella biografia del coreografo sul sito del New York City Ballet).

Una semplificazione, è evidente, ma che non sminuisce la vitalità e la rilevanza, la prosperità e l’esemplarità del lavoro di un coreografo ricercatamente geniale.

Crediti fotografici: Martha Swope

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