Lia Courrier torna con SetteOtto e ci racconta cosa succede se la danza divide anziché unire

di Lia Courrier
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Da quando la danza ha smesso di essere solo una libera espressione dell’uomo con scopi ritualistici o religiosi, per approdare – almeno qui in occidente- al palcoscenico delle corti francesi prima e poi nei teatri di tutto il mondo, ha perso la sua connotazione popolare per diventare una sofisticata forma di comunicazione tra autore/coreografo/danzatore e pubblico, attraverso un linguaggio non verbale potente e immediato. Nel corso dei secoli ogni società, civiltà e cultura ha prodotto una sua propria visione della danza, che oggi potremmo definire come l’arte dai mille volti. Grazie a pionieri come Isadora Duncan o Valslav Nijinsky, giusto per citarne un paio, è stato possibile rompere i legami con la danza accademica, aprendo una nuova lunga stagione di ricerca e novità che ci ha condotto fino ai nostri giorni. La globalizzazione poi ha fatto il resto, facendo entrare in contatto danze di tutto il mondo che altrimenti avrebbero fatto fatica ad incontrarsi e a mescolarsi, dando origine a nuove forme di danza-pensiero.

La danza esiste da quando esiste la specie umana, è cresciuta, si è evoluta insieme a noi, e continuerà a farlo finché il ritmo e il piacere del movimento faranno parte del nostro bagaglio di esseri viventi che comunicano reciprocamente attraverso il corpo. La nostra mania di incasellare ed etichettare sempre tutto ci ha fatto dare un nome ad ogni cosa: jazz, modern jazz, lyrical jazz, neooclassico, modern, modern contemporary, afro contemporary, hip hop, danza contemporanea, tap dance, tap fusion, belly fusion, tribal, balletto, balletto contemporaneo, contact improvisation, tango, contact tango, tango contemporaneo e chi più ne ha più ne metta. È fantastico vedere quante visioni sul movimento possano svilupparsi partendo da basi comuni, ossia quelle della tecnica a cui queste fanno riferimento. La danza è materiale malleabile e duttile, molto accogliente, perché si rende disponibile a chiunque sappia trattarla con il dovuto rispetto, competenza e intelligenza, ripagando ogni sforzo a lei dedicato con un risultato appagante, interessante, qualche volta anche geniale. Concede sorniona al danzatore l’illusione di aver compiuto un atto di creazione puro, quando invece è lei a decidere di esprimersi solo attraverso i corpi e le menti che sono in grado di lasciarsi possedere. La danza non è di nessuno, ma è per tutti, la danza è un dono che non conosce proprietà, è un’energia che si sprigiona per mezzo del corpo dell’umanità, intesa come unità, che da sempre la evoca, la desidera, vuole lasciarsi prendere da lei: dalle danze attorno al fuoco delle tribù ai più moderni club per scatenarsi sulla pista da ballo, dai teatri di velluto ai sobborghi metropolitani, la danza è sempre stata la nostra compagna per esprimere ciò che non può essere comunicato con le parole. Il linguaggio verbale, in effetti, dal punto di vista evolutivo, è arrivato molto tempo dopo rispetto al movimento danzato.

Porsi di fronte alla danza vuol dire entrare in contatto con l’enormità di questa storia fatta di passi, esercizi, musica e miriadi di cuori che battono al ritmo del movimento. Il problema vero per chi ama la danza è che si tratta di un’entità così vasta da non poterla conoscere tutta. Ognuno di noi entrerà in contatto con una millesima parte della sua vera identità, e solo se investe tutta l’intera esistenza a studiarla e praticarla. Oltre a non poter conoscere tutto ciò che è esistito prima di noi, infatti, è praticamente impossibile entrare in contatto con tutto ciò che si sta sviluppando adesso in giro per il mondo, e che diventerà la danza del futuro. Ogni volta che mi concedo del tempo per guardare le nuove proposte coreografiche rimango colpita e stupefatta da come i linguaggi performativi stiano sviluppando nuove modalità nei confronti del pubblico, della critica e della società. Una nuova cultura si sta facendo largo e la danza ne è una sua cronaca puntuale, a volte tagliente, a volte sognatrice e piena d’amore. Onestamente mi fa un po’ sorridere assistere a certe discussioni, dal vivo come sul web, in cui ci sono quelli per cui il balletto è l’unica base possibile per un danzatore, altri che lo demonizzano, alcuni dicono che la danza contemporanea è noiosa, o che addirittura non è da considerarsi neanche una tecnica, ma uno ‘stile: tutti giudicano tutto dall’alto di non so quale piedistallo, quando sarebbe molto meglio prima comprendere ciò che si crede di conoscere e di cui invece non si ha che una pallida idea, il più delle volte solo teorica e non esperienziale. Ogni elemento che abbiamo a disposizione noi oggi per danzare e studiare danza è frutto di generazioni di danzatori che hanno investito anni in ricerca e teorizzazione di un modo diverso di poter muovere il corpo. Se oggi per noi è naturale concepire una danza che possa essere guardata da ogni punto di vista dal pubblico, se possiamo immaginare di usare una musica senza seguirne il ritmo col corpo, se possiamo assistere ad una danza che rotola al suolo, o a due corpi che si muovono insieme, facendo del reciproco contatto un trampolino per sorprendenti evoluzioni, lo dobbiamo solo a questi pionieri che ci hanno mostrato la vastità della danza e il suo orizzonte ancora inesplorato che ci attende. Prima di parlare sarebbe bene conoscere queste storie straordinarie. Agli inutili dibattiti io preferisco godere di questa biodiversità, includendo tutto con la medesima importanza e quando proprio mi concedo di fare una distinzione, questa riguarda una danza onesta, consapevole, organica, colta e pura, in contrapposizione ad una che non possiede tutte queste qualità.

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