Lia Courrier: “Gli allievi di danza e la poca conoscenza del corpo umano”

di Lia Courrier
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Esiste una cospicua letteratura scientifica sulla progressiva dissociazione dell’umanità dal proprio corpo fisico. I media esasperano il culto del corpo esteticamente perfetto, celebrano l’atletismo performativo, venerano il muscolo scolpito, ma la verità è che generazione dopo generazione il corpo sta diventando sempre più un orpello decorativo a cui non lasciamo molto spazio per manifestare la sua propria intelligenza, a cui non prestiamo orecchio per ascoltare la sua voce, e di cui spesso non comprendiamo il miracolo che incarna. Nelle nuove generazioni emerge una carenza di coordinazione motoria, forza, resistenza, capacità di focalizzazione rispetto a quelle precedenti, e questo è certamente il risultato di più fattori che riguardano l’ambiente, l’alimentazione, ma soprattutto (credo) le abitudini sociali e culturali che portano i bambini ad uno stile di vita sedentario e con poche occasioni in cui potersi muovere seguendo l’istinto e la creatività innata di cui sono dotati (normalmente le attività motorie vengono svolte in sessioni predefinite con un adulto che dà istruzioni).

Ci sarebbe molto da dire a proposito, ma questa è un’altra storia.

Quello che ci interessa osservare in questo panorama (desolante, a mio avviso, con conseguenze che diverranno ancora più evidenti nel giro di qualche decennio) è come lo studio della danza si muova in direzione opposta a questa tendenza e quindi è da considerare un’attività potenzialmente utile, per tutti i bambini e le bambine, nel riportare armonia nel sistema, inteso come unità.

Come insegnante di danza che opera da più di venti anni su adolescenti e giovani adulti, mi sono resa conto dell’esistenza di questa spirale discendente, e se ho potuto notarla in un lasso di tempo così breve, vuol dire che questo cambiamento sta vivendo una accelerazione, come molti altri processi in atto, non ultimo il progresso tecnologico, che ha influito notevolmente – e continua a influire – nella relazione degli esseri umani con la propria ‘casa’.

Capita spesso di trovarmi di fronte a studenti che manifestano poca consapevolezza del corpo fisico e le sue parti, oppure non riescono ad esprimere a parole cosa sentono, a comunicare le percezioni e le informazioni che emergono dall’interno. Questo può rappresentare un limite quando ad esempio hanno bisogno di formulare delle domande specifiche su come eseguire un movimento o quando cercano di spiegarmi in quale parte del corpo sentono blocchi, restrizioni, dolore. Non è una mancanza di favella, ma proprio l’impossibilità di riconoscere la qualità di quel dolore, la sua forma o la sua intensità. Le loro domande a lezione rivelano molto dei processi di pensiero che riguardano il corpo e il movimento, nella maggior parte dei casi manifestano una visione poco limpida, sono domande che non hanno direzione.

Un’importante lacuna nella loro personale cassetta degli attrezzi, è la poca conoscenza del corpo umano. Parlo di conoscenze basiche, di anatomia cognitiva e fisiologia, di essere in possesso di un buon manuale da consultare, o aver sviluppato quella curiosità che spinge a contemplare le tavole anatomiche (oggi con internet disponibili sempre ovunque) per sapere come si è fatti. Nell’ultimo anno noto con preoccupazione che una buona percentuale di loro non risponde correttamente alle indicazioni verbali che hanno a che fare con le azioni: rotazione esterna o interna, adduzione o abduzione, flessione o estensione. Quando si muovono senza guardarmi spesso sbagliano completamente movimento.

In assenza di una conoscenza così elementare del corpo umano, la comunicazione tra me e loro rimane su una superficie che andrebbe quantomeno scalfita, per raggiungere un livello di scambio che onori il lavoro che ci proponiamo di fare insieme. È per me inconcepibile praticare una disciplina corporea, con aspirazioni professionali, senza sapere cosa sia lo psoas, dove origina e dove si inserisce e quale azione fa compiere all’articolazione coinvolta. Allo stesso modo mi sorprende la poca curiosità che in media manifestano nell’andare a cercare autonomamente queste informazioni o almeno chiedermi delucidazioni a riguardo. A volte recepiscono un’indicazione che in qualche modo gli si stampa nella mente, che può essere (giusto per citare una di quelle più gettonate tra gli insegnanti di danza) “usa meno il quadricipite e più l’adduttore”, ed entrano in una compulsione ossessiva in cui sembra che l’unico muscolo da usare sia l’adduttore, magari senza neanche conoscerne l’esatta ubicazione e la funzione.

Se alla difficoltà di un corpo che si sta evolvendo in una direzione non proprio vincente, aggiungiamo anche questa forma di superficialità nella conoscenza dello strumento, allora insegnare danza diventa una ‘mission impossible’, perché manca la condivisione di tessuto comune su cui costruire la trasmissione. Quanto di quello che dico durante le lezioni (e sono una che parla tanto) arriva davvero a destinazione in modo chiaro? Quanto di quello che raggiunge il livello cognitivo vive poi effettivamente un processo di embodiment?

Se è vero che ognuno ha i suoi tempi e i propri percorsi di apprendimento, che bisogna assolutamente rispettare, è vero anche che mi preoccupa molto la chiarezza e la comunione di intenti, nella relazione allievo-insegnante, che le informazioni non vengano solo udite con l’organo dell’orecchio, ma anche osservate, esaminate, comprese, quindi incarnate. In caso contrario le mie parole rischiano di diventare come fumo, che sale verso l’alto ed esce fuori dalla finestra disperdendosi nell’aria.

L’allievo non è l’elemento passivo in questa relazione, non se ne sta lì a farsi riempire come un bicchiere, ho bisogno che anche loro compiano un movimento verso di me in modo onesto e sincero, il che vuol dire anche comunicare i dubbi, dichiarare di non sapere, anche le cose più banali, senza imbarazzo. Siamo tutti qui per imparare e sarebbe bene cercare di sfruttare al meglio ogni secondo trascorso insieme. L’indolenza che vedo negli sguardi dei ragazzi ogni tanto mi spiazza, non so come interpretarla: si tratta di noia, di stanchezza, di flussi di attenzione volubili, oppure hanno solo voglia di muoversi e non di ragionare?

In attesa di capirci qualcosa ho drasticamente ridotto i momenti di approfondimento teorico, perché percepisco il poco interesse nei confronti di questi tipo di approccio. Peccato perché nel ruolo di colei che forma i danzatori, mi sento di dire che non sto allevando bestie da soma, ma futuri artisti che oltre a muoversi dovranno anche pensare.

L’immagine è di un giovane artista che si chiama FLOREN, questo il suo profilohttps://florenblom.artstation.com/

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