“La Traviata” di Carsen nel far-west veneziano

di Giada Feraudo
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Atmosfere da saloon alla Fenice di Venezia, che riapre dopo la pausa estiva con La Traviata, l’opera che in questo teatro è nata e che l’ha visto rinascere, nel 2004, dopo l’incendio. La prima mondiale del capolavoro verdiano si tenne, infatti, proprio alla Fenice, il 6 marzo 1853, e oggi La Traviata che vi si rappresenta e che ne segnò, appunto, la rinascita, un decennio fa, è quella firmata dal regista Robert Carsen, che ha avuto, in questi anni, moltissime rappresentazioni e continua ad essere estremamente apprezzata dal pubblico.

La lettura di Carsen traspone i fatti sul finire degli anni Settanta e pone un accento particolare sull’importanza del denaro, che scorre a fiumi tra le mani di tutti i personaggi che calcano la scena, secondo una visione estremamente materialistica della realtà, in cui anche i sentimenti più nobili si sottomettono alla fredda e spietata legge del guadagno.

 

Particolarmente curioso e originale è il balletto, che interviene, come da tradizione, sul pezzo corale delle zingarelle e dei matadores. Nella prima parte, quella delle zingarelle, in corrispondenza del canto delle voci femminili del coro, ecco entrare in scena cinque provocanti e sensualissime cow-girl, con tanto di cappello e stivali, a cui si aggiungono, nell’aria successiva, altrettanti ballerini che sembrano appena usciti da un set di un film western in ragione del loro abbigliamento e dello studiato atteggiamento da cow-boy. Le coreografie, ideate e curate dal coreografo francese Philippe Guirardeau, hanno un disegno essenziale e sono tecnicamente molto semplici, completamente prive di virtuosismi, ma estremamente esigenti sotto l’aspetto dell’interpretazione. Una sensualità spinta all’estremo, costantemente provocante e ammiccante, è ciò che passa dalla scena al pubblico, senza però mai scadere nella volgarità dei gesti e delle intenzioni. I ballerini si muovono nel contesto di una scenografia da night club, scintillante di luci e di lustrini oro e argento, interagiscono con gli avventori del locale e ballano sui tavoli, in un trasgressivo e accattivante momento goliardico, che mette in particolare evidenza come, pur se all’interno di un’opera, il linguaggio della danza si possa rivelare duttile e adattarsi ai molteplici aspetti della performance, anche quando questa non prevede soltanto il balletto come centro della rappresentazione.

Crediti fotografici: Michele Crosera

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