Anbeta Toromani e Alessandro Macario: “lavoro, dedizione, impegno, solo così si raggiunge un risultato”

di Francesco Borelli
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Incontro Anbeta e Alessandro il giorno antecedente alla prima di “Schiaccianoci” presso il Teatro Coccia di Novara.  Fuori c’è il sole, seppure l’aria sia pungente e annunci un gelido inverno. Scopro due ragazzi semplici e alla mano: certo, consapevoli, ma senza sovrastrutture date dal successo e dalla fama. Mi rallegro della loro gentilezza, dell’atmosfera che si crea e della loro disponibilità.

Lo “Schiaccianoci” di Amedeo Amodio è in assoluto uno degli allestimenti del balletto più rappresentati degli ultimi anni. Qual è la forza di questa versione?

Anbeta: Lo Schiaccianoci di Amodio esiste da ben venticinque anni, eppure sembra creato ai giorni nostri. È contemporaneo nella scenografia, nei costumi, nella struttura coreografica e nella regia. Spesso Alessandro ed io scherziamo col maestro dicendo che lo spettacolo sembra tratto da un film di Tim Burton. Ed è proprio così.

Alessandro: Penso che il Maestro abbia saputo restituire al racconto quell’alone di magia e mistero che rende unico lo spettacolo. E poi, come ha ben detto Anbeta, questa versione di “Schiaccianoci” ha una struttura coreografica e drammaturgica sempre contemporanea.

Oggi si parla moltissimo della crisi della danza in Italia. Tanti talentuosi danzatori emigrano all’estero in cerca di “fortuna e gloria”. Che cosa ha reso le vostre esperienze diverse?

Anbeta: Il lavoro e la dedizione verso il nostro mestiere hanno di certo fatto la nostra fortuna. Ma è vero anche che esistono tanti danzatori bravissimi, che non hanno avuto le nostre stesse possibilità. Le piroette sono importanti, le gambe alte pure ma è qualcosa di più profondo a fare la differenza; è una luce che hai o non hai. E poi la fortuna. E gli incontri.

Alessandro: Esistono mille difficoltà per chi ha deciso di rimanere in Italia dove la danza non è in alcun modo sostenuta né dallo stato né dai privati. Da giovanissimo avevo la possibilità di trasferirmi all’estero ma decisi di non farlo. Furono mille i motivi che m’indussero a fare questa scelta ma volli rimanere al San Carlo, la mia casa e il mio teatro. Nel nostro paese è tutto difficile e complicato, non hai certezze e spesso devi scalare enormi montagne. Ma la danza c’è sempre e nessuno può togliertela. Ho lavorato sodo e non mi sono risparmiato. E l’impegno e il lavoro, secondo me, pagano sempre.

A proposito d’incontri, quali sono stati quelli importanti nelle vostre vite?

Anbeta: Ogni maestro o coreografo che ho incontrato lungo il mio cammino è stato importante. Da tutti ho imparato, anche da quelli che oggi, con l’esperienza accumulata, non reputo all’altezza. C’è però una persona alla quale sono particolarmente legata, sia per questioni affettive sia per tutto ciò che mi ha donato attraverso il lavoro. Si tratta di Alessandra Celentano. Grazie a lei, già assistente della Terabust, mi si è aperto un mondo fatto di ricerca ossessiva della qualità e della precisione. Durante il programma “Amici” Alessandra mi ha totalmente destrutturato per ricostruirmi con un lavoro minuzioso. Scherzando le dicevo che mi sembrava di non aver mai fatto danza.

Alessandro: Devo tutto alla Signora Elisabetta Terabust. Dopo il diploma al San Carlo iniziai a lavorare presso altri realtà, ma quando venni a sapere del suo arrivo in teatro, decisi di tornare “a casa” per il solo desiderio di poter collaborare con lei. A soli ventitré anni mi diede la possibilità di danzare il ruolo di Romeo nel balletto di Kenneth McMillan: si trattava di una matinee, ma fu comunque un inizio. L’anno successivo, invece, interpretai “Giselle”. Un ospite, che doveva danzare nel ruolo di Albrecht, si fece male e la Terabust venne da me chiedendomi se me la sentivo di interpretare il ruolo. Studiavo per quella parte da ben quattro mesi e dissi subito sì. Da lì partì tutto e dopo poco ebbi il mio primo contratto da primo ballerino.

Molti dei danzatori attuali, bravissimi ed eccellenti esecutori, mancano di stile, di attenzione al dettaglio, di sguardi. Miti come Fracci, Savignano, Terabust hanno costruito la loro carriera su interpretazioni uniche.

Anbeta: È bellissimo vedere ballerini  tecnici capaci di compiere evoluzioni straordinarie. Ma la danza non è solo quello. Neppure un mese fa, parlando con la Signora Fracci, le chiesi della sua carriera, dei suoi inizi, del suo lavoro che iniziava nel periodo delle vere grandi dive della danza. Mi disse che dietro ad ogni balletto e interpretazione c’era una cura del dettaglio e del particolare misto a una grande spontaneità. Una sera non poteva essere uguale all’altra. Amodio è una di quelle persone che ancora lavora in questo modo. Ed è cosa rara. Da giovanissima quando sentivo parlare di queste cose, me ne preoccupavo relativamente. La mia preoccupazione riguardava l’esecuzione, la paura di non riuscire a padroneggiare la tecnica. Ma quel tipo di paura non passa mai. Nel tempo però il focus di un personaggio si sposta su altro. E tutto cambia.

Alessandro: Ciò che rimane di uno spettacolo cui assisti in teatro, è l’artisticità e l’emozione che un danzatore ha saputo donarti. La tecnica deve essere al servizio di un personaggio e di una sensazione che bisogna regalare al pubblico.

Esiste, nelle vostre carriere, una notte che non dimenticherete mai?

Anbeta: Forse quella notte magica devo ancora viverla. Ho sempre difficoltà nello scegliere qualcosa: uno spettacolo, una persona, un ruolo oppure una notte che non dimentico. Sono decisa per alcune cose ma per altre no.

Alessandro: Ce ne sono state tante per fortuna; notti in cui, terminata la rappresentazione, continuavo a sorridere per lo stato di grazia in cui mi trovavo e che stavo vivendo. Amo due balletti in particolare: “Romeo e Giulietta” e “Giselle”. Interpretarli mi ha reso sempre felice.

La danza è una scelta o un sacrificio?

Anbeta: Tutti compiono sacrifici per raggiungere un obiettivo. Nel nostro caso questo mood comincia già da bambini. E credo che nel corso del tempo il “sacrificio” si trasformi quasi in una droga. La disciplina, il rigore diventano elementi di cui non puoi più fare a meno.

Alessandro: Il più grande sacrificio è tollerare se stessi. Tutti noi danzatori siamo portati, per definizione, a crearci mille problemi e a convivere con ansie e paure.

Il pubblico ha sempre una percezione fittizia dei danzatori. In scena sembrano quasi invincibili e forti. Alessandro, hai parlato di paure e ansie. Come si gestiscono?

Anbeta: In questo sono molto diversa da Alessandro. Lui prima di uno spettacolo condivide le sue paure e le sue ansie. Io, viceversa, tendo a chiudermi in un’apparente freddezza. Ma non è indifferenza, piuttosto concentrazione e tentativo di canalizzare l’ansia verso un’energia funzionale alla buona riuscita dello spettacolo.

Alessandro: Per quanto mi riguarda, l’esperienza è una grande alleata. Ciò non significa che il timore non ci sia. Prima di entrare in scena ho sempre mille dubbi e paure che poi, magicamente, scompaiono una volta cominciato lo spettacolo. La paura si trasforma in energia. Ma l’emozione è quella della prima volta.

A che punto siete della vostra carriera?

Anbeta: Da un punto di vista fisico è meglio oggi che vent’anni fa. Ho più consapevolezza e riesco a gestire meglio le forze e a calibrarle. La fatica maggiore, da libera professionista, sta nella precarietà. Non sono certo la persona che ama timbrare il cartellino ma oggi scegliere è diventato un lusso. Spesso manca lo stimolo allo studio perché hai repliche lontane tra loro. E questo stanca. A che punto sono? Davvero non lo so.

Alessandro: Da anni ormai io e Anbeta lavoriamo assieme. E condivido il suo stesso pensiero. Vorrei che le cose fossero fatte in modo diverso. Da giovane anche solo un mese e di contratto ti rendeva felice. A trentasette anni desidererei una sicurezza di lavoro maggiore.

Torniamo a Schiaccianoci: che tipo di ambiente si respira dietro le quinte di questa produzione entrata nella storia della danza?

Anbeta: Il gruppo di lavoro è magnifico. Abbiamo Stefania Di Cosmo, che oggi a mio avviso, è una delle maitre migliori in Italia. Amedeo Amodio è persona alla quale ci lega un grandissimo affetto. E poi Daniele Cipriani: un uomo coraggioso che ha fatto della diffusione della danza in Italia una vera e propria missione.

Alessandro: L’ambiente è ottimo e Cipriani è un uomo coraggioso che sta tentando di educare il pubblico italiano. C’è un pubblico per la danza ma bisognerebbe continuamente stimolarlo con appuntamenti numerosi e non sporadici.

Dal punto di vista di persone di successo quali voi siete, è ancora giusto incoraggiare i ragazzi che vogliono fare questo lavoro a investire tempo e denaro, rischiando di trovarsi con in mano, un pugno di mosche?

Anbeta: Bisogna sempre investire su se stessi e credere nei propri sogni. Anche quando sembra che tutto remi contro.In Italia, come si diceva, la situazione è particolarmente difficile. Molti emigrano non per scelta ma per necessità. E questo è triste.

Alessandro: La danza è pura passione non un lavoro. E le grandi passioni non possono essere contrastate. Bisogna partire però da un assunto fondamentale: il mestiere è una cosa, la danza un’altra. Non bisogna mai trasformarsi in dipendenti ma conservare sempre, dentro di sé, la spinta del cuore. Solo quello ci permette di amare questo mondo e la vita che ne consegue.

Oriella Dorella ha detto: “La danza mi ha permesso di addormentarmi come Carmen e di svegliarmi Gelsomina. A voi cosa ha donato la danza?

Anbeta: Il grande dono è stato poter incontrare, nel corso di tutti questi anni, persone con le quali comunicare e che potessero arricchirmi con le loro storie e i loro racconti. Tendenzialmente sono una persona che sceglie chi frequentare, anche nella mia vita privata. Ho pochi amici ma son gli stessi da sempre. Forse la danza ha un po’ attutito questo mio aspetto. Rimango comunque una persona esigente, nei rapporti e nel lavoro.

Alessandro: La danza mi ha permesso di scoprire parti di me che probabilmente non sarebbero venute in superficie. Non parlo di una consapevolezza fisica, che inevitabilmente acquisisci, ma di un qualcosa di più profondo. Di sensazioni che prescindono dallo specchio nel quale tutti noi danzatori ci ritroviamo tutti i giorni. Quella non è la realtà.

Termina così la nostra lunga chiacchierata. Le prove in teatro richiamano all’ordine e ci salutiamo con la promessa di rivederci la sera successiva dopo lo spettacolo. Mi allontano dal luogo del nostro incontro e mi sento soddisfatto. Contento dell’incontro fatto, felice di aver conosciuto due persone che, seppure impeccabili professionisti, vivono di dubbi e a volte paure. Come tutti. Non è forse questo che rende grandi gli artisti?

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