Vittoria Cappelli: “C’è sempre stata dentro di me la voglia di scoprire cose nuove, una curiosità che non si placa, che continua a esistere, sempre”

L'intervista del nostro Direttore Francesco Borelli

di Francesco Borelli
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Signora Cappelli, al netto della vita straordinaria che ha vissuto, dell’incredibile bagaglio di esperienze accumulato, a che punto si trova? Che donna è oggi Vittoria Cappelli?

Sono la stessa donna di 40 anni fa, con lo stesso infinito amore per la danza, per la bellezza, per la cultura. Il tempo non mi sembra affatto passato. Lotto con la medesima forza e la medesima intensità di allora. Oggi è solo più complicato: un tempo era più semplice spingere i giovani a credere che la bellezza della danza potesse migliorare il corpo come il cuore. A prescindere dall’obiettivo, professionale e non, quest’arte sublime modifica il nostro modo d’essere e di stare al mondo.

Come nacque l’amore per la danza?

Mio padre, Carlo Alberto Cappelli, è stato un famoso editore e soprintendete del Teatro Comunale di Bologna e dell’Arena Di Verona. Sono cresciuta guardando l’opera e il balletto e ho conosciuto tutti i più grandi artisti del mondo. Ero una giovane ragazza con un’immensa fortuna. Fu così che mi innamorai della danza, della sua forza e della sua bellezza. Ciò che mi colpiva non era tanto la parte tecnica, quanto quella emotiva: uno sguardo, una mano, un gesto, la poesia di certi piccoli effimeri istanti.

Come ha iniziato a produrre e creare spettacolo?

Quando morì mio padre proposi a Pierluigi Pizzi di realizzare “Questa è l’Arena, qui è nata Maria Callas”, un grande show che nelle mie intenzioni voleva rendere omaggio alla memoria del babbo che tanto aveva fatto a Verona.

Premetto che fino ad allora mi ero occupata solo di moda e avevo lavorato presso la casa editrice Cappelli; non avevo idea di cosa significasse produrre uno spettacolo. Su suggerimento di Pizzi andammo da Pippo Baudo, persona di grande intelligenza e cultura, che abbracciò il progetto tanto da portarlo su Rai Uno. Fu in quell’occasione che mi venne l’idea del binomio arte/moda, i grandi stilisti, cioè, avrebbero vestito i protagonisti dello spettacolo: Carmen avrebbe avuto abiti firmati Fendi, Macbeth sarebbe stato vestito da Trussardi, Norma cantata dall’adorata Callas sarebbe stata interpretata da Carla Fracci vestita da Capucci. Realizzammo anche un omaggio a Piazzola con Milva vestita da Gianfranco Ferrè.

Umberto Tirelli la più grande azienda di moda del mondo, si occupò dell’Aida. Fu un vero e proprio trionfo e Rai Uno fece ascolti altissimi. Fu così, sotto i migliori auspici, che iniziò la mia avventura nel mondo della produzione.

Dopo quell’esperienza scelsi definitivamente la danza.

Come iniziò la sua collaborazione con Vittoria Ottolenghi?

Era il 1986 e, forte dell’enorme successo dello spettacolo in Arena, andai dall’allora Direttore di Rai Uno Emanuele Milano dicendogli che mi sarebbe piaciuto dedicarmi a grandi progetti legati alla danza ma che, seppur spinta da una grande passione, non avevo così grandi competenze in materia. Mi propose di contattare Vittoria Ottolenghi. La incontrai e le proposi di unire la grande danza alle bellezze del nostro paese; le piazze italiane più belle avrebbero ospitato i danzatori e le compagnie più grandi. Dopo una settimana mi chiamò accettando la mia proposta. Nacque così “Le Divine” dalla Piazza dei Miracoli di Pisa.

Da allora creaste dei veri e propri capolavori, spettacoli che vivono, cristallizzati, nella memoria di tutti noi.

Ripenso a “Festa a corte” realizzato a Mantova. C’erano Rudolf Nureyev, Carla Fracci, Margot Fonteyn, Vladimir Vassiliev, Ekaterina Maksimova, il meglio della danza mondiale in un’unica notte. Emozioni che non si possono dimenticare.

Foste tra l’altro delle vere e proprie talent scout.

Alessandra Ferri debuttò proprio nello spettacolo di Pisa. Scoprimmo noi Joaquin Cortes: lo vedemmo in un locale a Madrid mentre ballava tra i tavoli. Lo convocammo il giorno dopo al Palace. Arrivò bellissimo coi suoi stivali e il suo codino e gli proponemmo di danzare ne “Los Divinos” da Placa Mayor, spettacolo che sarebbe andato su Rai Uno e sulla TVE. Non ci poteva credere. Proposi di realizzare un passo a due tra uomini su musica flamenca – per allora era qualcosa di unico- tra Cortes appunto e uno straordinario danzatore della scuola di Bejart. Fu un altro trionfo. Anche quella sera c’erano tutti: Nacho Duato, Julio Bocca, Marquez.

Oggi è ancora possibile realizzare queste meraviglie?

Non credo. Allora c’era grande attenzione al mondo della cultura e una volontà, forte, di promuoverla. Con me e la Ottolenghi la grande danza, realizzata nelle piazze, rendeva la bellezza alla portata di tutti e promuoveva non solo il balletto ma anche i luoghi in cui esso si realizzava. Oggi è molto difficile che ciò accada. Non ci sono i soldi, si preferisce realizzare spettacoli popolari e di bassa lega, e i giovani si accontentano del rapper di turno senza ricercare la vera arte. Ma la colpa è a monte: non si abituano i ragazzi alla bellezza, non c’è il desiderio di insegnare nulla. E la televisione, se si esclude “Danza con me” di Roberto Bolle, non aiuta affatto.

Lo scorso dicembre ha però nuovamente legato la danza ad un luogo storico come la Basilica di San Petronio a Bologna. Com’è andata?

Benissimo. Avevo come partner il Vaticano e la Santa Sede. “Memorare”, questo il titolo, univa la musica sacra alla danza. Ѐ stato un lavoro infinito e stancante ma ne è valsa la pena. D’altronde la danza è preghiera: me lo disse Papa Wojtyla in occasione del balletto “Gli Angeli” che io e Vittoria Ottolenghi realizzammo nel 2000 con la regia dell’amico Bigonzetti sul sagrato del Vaticano.

Che cosa la spinge a darsi ancora così tanto da fare?

Ne vale sempre la pena, nonostante le immense difficoltà che oggi, più di ieri, esistono. Ma non mi tiro indietro: sono molto attiva su progetti europei, su bandi legati alle scuole, su la danza come mezzo di inclusione e condivisione.

Suo padre le disse: “Tu sei nata con una stella in fronte”. Perché?

Ho adorato mio padre, da lui ho imparato tutto: l’onestà intellettuale, la ricerca della qualità, l’impegno. Forse vedeva in me la grande passione, la dedizione al lavoro, una stilla di creatività. C’è sempre stata dentro di me la voglia di scoprire cose nuove, una curiosità che non si placa, che continua a esistere, sempre.

Non solo danza nella sua vita. Penso al programma Passepartout dedicato alla pittura.

Il programma è durato per 10 anni. Con Philippe Daverio ho scoperto la pittura, la scultura, l’arte moderna e quella antica. Ho imparato molto da lui. Credo che Passepartout sia stato il programma d’arte più bello della televisione. Per chi vuol fare il mio lavoro è fondamentale non smettere mai di imparare.

Lei si è dedicata moltissimo alla televisione.

La TV è un mezzo straordinario che se ben utilizzato può essere strumento di diffusione di messaggi importanti: la cultura, l’arte, la danza, sono pura bellezza, linfa vitale per le giovani menti e il grande pubblico. Se hai una platea fatta di milioni di persone è più facile che qualcuno recepisca l’importanza che tutto questo può avere nella nostra vita.

C’è un momento della sua lunghissima vita che ricorda con particolare struggimento?

Di recente a Bologna, in occasione di Memorare, all’interno della straordinaria basilica di San Petronio ho capito che ero ancora in grado di regalare emozioni, di donare, attraverso la danza, la  musica e bellezza, sensazioni belle che possono rendere felici. E questo è stato, per me, importante perché sono sempre stata il peggior giudice di me stessa.

Si sente una persona speciale?

No, mi sento una persona fortunata. Mi riconosco però una grande passione per il mio lavoro e la voglia di non fermarmi mai. Lavorerò fino all’ultimo giorno.

Se dovesse pensare di dar forma a un altro grande sogno, quale sarebbe?

Mi piacerebbe creare un festival universale della danza, entrare, attraverso la musica e la danza, nella cultura di ciascun paese. E portarle in Italia celebrando il mondo della danza come mai fatto prima.

Le propongo una serie di nomi che deve definirmi con un aggettivo o che può collegare ad un ricordo. Iniziamo con sua sorella, Carla Cappelli.

Carla è esattamente il mio opposto. Ci vogliamo molto bene ed è stata bravissima nel suo lavoro. Ma io sono come il babbo. Papà è morto firmando un documento all’Arena di Verona all’età di 75 anni. Per lui il lavoro era la vita e la stessa cosa vale per me. Carla è una persona straordinaria ma, per quanto abbia avuto un grande successo, aveva altre priorità.

Rudolf Nureyev.

Rudy era l’amore più grande di Vittoria Ottolenghi. Un personaggio magnifico, al di fuori di ogni regola. Lo ricordo con il berretto in testa e la sciarpa di Missoni. Ho conosciuto l’artista e la persona, il danzatore immenso e l’essere umano.

Carla Fracci.

Carla era un’amica. Ho conosciuto lei e Beppe moltissimi anni fa grazie a mio padre. Con Carla abbiamo fatto qualsiasi cosa. Durissima e tenace, dolcissima e collerica, una vera diva.

Oggi esistono ancora le dive?

Forse Svetlana Zacharova, Eleonora Abbagnato ma non con quella accezione di divismo che possiamo legare ai nomi sopra citati.

Maria Callas.

Unica, una piccola grande donna, impareggiabile. Diva dentro come Carla.

Lei si è mai sentita una diva?

No, assolutamente. Ma sono contenta di essere una persona che sa fare il suo mestiere che è diventato amore vero. Forse a volte gli altri hanno avuto la percezione di me come diva ma non perché io mi comportassi come tale.

Lei è stata, insieme a Vittoria Ottolenghi, per me e per molti che si occupano di eventi e comunicazione un vero e proprio esempio, un modello da seguire.

Mi fa molto piacere ma essere un modello è impegnativo: bisogna essere sempre più brave e superarsi. Non sono un esempio in nulla se non per il desiderio di far bene e l’entusiasmo che non mi lascia mai.

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