Pino Alosa: “La felicità è vivere il teatro, la danza, il palcoscenico: un legame profondo che è prima di tutto amore”

di Francesco Borelli
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Incontro Pino Alosa a Roma e, rivederlo, mi conduce subito indietro nel tempo, quando ancora giovanissimo presi qualche lezione durante un suo stage. Ricordo perfettamente le sue correzioni, l’attenzione rispetto a ciascun allievo presente in sala, quella autorevolezza naturale che viene da una profonda consapevolezza di sé stessi e del proprio valore. A distanza di anni ritrovo un uomo ancora gentile, con un bagaglio di esperienze straordinario e un’umiltà che appartiene a pochi.

Dopo una felicissima carriera da danzatore, sei diventato, con straordinari risultati, maître e co direttore di compagnie. Un passaggio che alcuni compiono ma che non è semplice e neppure scontato. Tu ci sei riuscito. Perché?

Credo che la molla sia stata la curiosità. Sin da quando ero danzatore ho sempre avuto interesse non solo per il mio lavoro ma anche per quello degli altri. Maestri, ripetitori, tecnici, maestranze: li osservavo e cercavo di imparare. Ognuno di noi ha la propria attitudine: alcune cose vengono dall’esperienza, altre da un istinto naturale, da ciò che si definisce talento. Tutti possiamo studiare danza e tutti siamo dotati di due gambe e due braccia. Ma non per tutti i risultati sono uguali.

Tu il talento lo hai?

Domanda difficilissima: se dico di sì posso sembrare presuntuoso, se ti dico no sembra che voglia fare il falso modesto. In realtà penso che sia stato il tempo a decretarlo. Il successo lo possiamo raggiungere in tanti, ma quanto dura se non è supportato da qualcosa di solido? Penso che solo il lavoro e il riconoscimento da parte degli altri possano dare risposta a questa domanda. E forse, la mia carriera può rispondere per me.

Il riconoscimento di un talento sembra che all’estero sia dettato dalle sole capacità e che in Italia risponda a dinamiche differenti. Fuori se sei bravo vai avanti, nel nostro paese non è detto che chi lavora abbia effettivamente le qualità per farlo. Sei d’accordo?

Io penso che anche in Italia si riconosca il vero talento. Però spesso capita che non ci si faccia caso. All’estero le opportunità, se sei bravo, arrivano prima e in maniera più concreta.

Sei stato un danzatore estremamente versatile, capace di ballare nei più importanti programmi televisivi degli anni 80, così come in teatro. Se oggi guardi il ballerino di allora, che voto ti daresti?

I tempi sono cambiati a tal punto che è quasi impossibile pensare di valutare un danzatore attivo in quegli anni sulla base dei parametri attuali. Posso dire però che, come dicono gli americani, ero smart, sveglio, avevo facilità nell’apprendimento e fisicamente mi veniva tutto semplice. Credo però che la mia forza sia stata considerarmi non un “ballerino di” ma solo “un ballerino”: non mi concedevo limiti, facevo sì che fosse solo la curiosità a condurmi. E questo mi ha permesso di vivere il mondo della danza a 360 gradi.

Parliamo di Pino Alosa maestro. Ciò che è universalmente riconosciuto è la tua capacità di capire subito il ballerino che hai davanti: cogli i punti di forza ma anche le debolezze sulle quali lavorare. E questo non è da tutti.

Credo che ciò derivi da un mix di fattori: certamente l’esperienza, il bagaglio professionale che tutti noi ci portiamo dietro, il ricordo del corpo che si muove nello spazio e poi ovviamente anche la dote. Tutti possono dare una lezione ma non tutti possono insegnare.

In qualità di maître hai lavorato nei teatri più prestigiosi del mondo. Dal New York City Ballet fino al Teatro dell’Opera di Parigi, passando per la Royal Ballet di Londra e il Balletto Nazionale di Cuba. L’elenco sarebbe infinito.

A volte mi sorprendo io stesso: si tratta di compagnie molto diverse tra loro con un lavoro specifico e con una scuola, ciascuna molto precisa. E mi stupisce che il mio lavoro possa adattarsi ad ognuna di queste situazioni con ottimi risultati. Negli ultimi due mesi ho trascorso tre settimane all’ABT, sono ritornato, dopo 12 anni al Boston Ballet e poi New York City Ballet e SAB SCHOOL. Realtà straordinarie in cui la qualità e l’eccellenza sono un filo conduttore nelle quali mi sono sempre sentito a mio agio.

Quali sono le qualità di un buon ripetitore?

La conoscenza approfondita della danza è certamente la necessità principale: parlo di tecnica ma anche di stile. Però non basta. Ogni giorno un maestro ha a che fare con i ballerini che, prima di tutto, sono persone. Il sapersi rapportare con ciascuno di loro, comprendere le loro necessità, è una qualità importante tanto quanto il resto.

C’è un coreografo col quale ti sei sentito maggiormente in sintonia?

Sono stato molto fortunato, ho lavorato con tanti coreografi straordinari e con ciascuno di loro ho lavorato bene. Duato, Kyliàn, Forsyte mi hanno lasciato tanto e mi han fatto comprendere il motivo per cui sono e rimarranno nella storia della danza. Se penso però ad un balletto che amo lavorare particolarmente penso a Giselle.

Perché Giselle?

Giselle è il balletto per eccellenza: c’è danza, storia, stile, interpretazione. La tecnica prescinde dal virtuosismo e tutto è magia.

C’è un coreografo, danzatore, maestro che ti ha colpito più di altri? Che è entrato nella tua memoria in maniera più profonda di altri?

Jiří Kylián è un uomo eccezionale. Non l’ho mai visto fare una scenata o essere impositivo con chicchessia. Ricordo una sera ad Oslo. Stavamo lavorando col Norvegian National Ballet per una serata a lui dedicata. Finita la prova, prese il microfono e ringraziò i danzatori dicendo che lui e i suoi assistenti sarebbero venuti dietro le quinte per dare delle “suggestions”. Parlò di suggerimenti, non correzioni. Grande classe, grande finezza.

Secondo te che percezione hanno di te le persone con le quali lavori?

Penso che mi percepiscano come una persona onesta, leale, trasparente. Poi posso piacere o non piacere, ma ho sempre lavorato con passione e professionalità.

C’è una serata nella tua lunghissima e variegata carriera che ti è rimasta nel cuore? Una notte che non dimenticherai mai?

Più che la serata che non dimenticherò penso ad alcune sensazioni che mi sono rimaste, fortissime, nel cuore. Ritrovarmi nella sala in cui Balanchine ha creato i suoi capolavori, essere maître al New York City Ballet, lavorare nelle sale dell’Opera di Parigi.

Di notti belle però ce ne sono state davvero tantissime e sarebbe impossibile sceglierne una: mi riferisco tanto ai balletti cui ho lavorato insieme a Marianela Núñez per esempio, o a Roberto Bolle, contesti in cui il risultato è quasi scontato, quanto ad aver preparato un giovanissimo ballerino per interpretare Albrecht. In questo caso il carico emotivo è fortissimo.

Tanta bellezza certo, ma in un percorso lavorativo così lungo e articolato ci saranno stati anche momenti bui.

Le vite perfette non esistono ma se penso ai momenti bui, penso soprattutto alla delusione da parte di alcune persone che non mi hanno capito o non han voluto capirmi. Parlo del preconcetto nei miei confronti, in particolare in Italia all’inizio della mia carriera.

Attualmente sei co direttore della Compagnia Nazionale di Madrid. Quali sono le linee guida della tua direzione?

Tutto parte da una piena conoscenza dei danzatori che la compongono, delle loro caratteristiche e da una consapevolezza dell’obiettivo da raggiungere, obiettivo che si sviluppa sul lungo termine. Per esempio, se lavori con una compagnia di danza contemporanea e vuoi, nel tempo, portarla a danzare un repertorio di tipo neo classico, inizierai a prevedere un programma che pian piano conduca i danzatori ad affrontare quel repertorio con la tecnica e lo stile adeguati. Poi non si può prescindere dal pubblico di riferimento. Secondo me bisogna dare agli spettatori ciò che desiderano vedere in scena, educandoli, gradualmente, anche a sapori diversi. All’inizio anche Kylián ha avuto difficoltà a farsi accettare. Culturalmente in America esistevano solo Balanchine, Martha Graham, Paul Taylor: erano loro i moderni. Pian piano però alcune compagnie si sono avvicinate alle novità, tra cui Kylian, inserendole nelle loro programmazioni.

E ancora il numero dei danzatori che hai a disposizione: con un ensemble di 30 persone sarà molto difficile fare “La Bella addormentata”. Infine il budget e il tipo di compagnia. Il discorso legato alla sua gestione sarà differente se trattasi di compagnia privata o statale.

Direi che dirigere una compagnia prevede una “gestione artisticamente manageriale”.

Hai vissuto tanto, intensamente e ovunque: che cosa ti ha tolto il tuo lavoro?

Qualcosa inevitabilmente lasci indietro. Vivendo così come ho sempre vissuto è difficile creare una normale vita familiare, non impossibile ma complicato. Scelte diverse avrebbero portato a una vita differente. Ma l’istinto mi ha condotto verso altre strade e sono felice così.

Se dovessi dare una definizione di felicità sulla base di quella che è stata la tua vita, quali parole utilizzeresti?

Per me la felicità è stare in sala con i danzatori. Vivere il teatro, la danza, ogni singola atmosfera legata al palcoscenico. C’è un legame delicato, non prepotente, col lavoro che faccio. Un legame profondo che è prima di tutto amore.

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