Damiano Artale: “La danza è una scelta; dei sacrifici non ti accorgi perché stai perseguendo un sogno”

di Francesco Borelli
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Prima danzatore affermato, poi Maestro e coreografo capace e di successo. Non sempre questo passaggio di ruoli riesce. Nel tuo caso, invece, continui a mietere successi e riconoscimento. Perché?

Non so se sono diventato un bravo insegnante, di certo a un certo punto della mia carriera ho sentito forte la necessità di “trasmettere il mio messaggio”, di regalare agli altri l’esperienza accumulata negli anni di lavoro. Inizialmente, devo ammetterlo, c’era molta ansia. Poi ho capito che era semplicemente cambiata la mia “missione”. Dovevo rendermi utile in maniera diversa, tenendo presente che il pubblico di riferimento era cambiato. Ora mi trovo davanti ragazzi che hanno una sete d’imparare differente rispetto ai professionisti, ciascuno con la propria storia, le proprie esperienze di vita e il proprio modo di recepire e vivere una lezione di danza. A loro mi rivolgo e spero di riuscire, nella maggior parte dei casi, a donare qualcosa di me. Per quanto riguarda la coreografia, sto crescendo. Non mi sento ancora affermato in tal senso. Colgo le occasioni che mi vengono offerte e cerco di fare del mio meglio. Ho fatto delle cose belle e tante altre vorrei farne. Le idee non mancano ma sarà la vita a darmi risposte.

Se dovessi definire il tuo stile coreografico, quali parole utilizzeresti?

Sono sempre stato un danzatore molto versatile, cosa che mi ha aiutato a lavorare con svariati coreografi cercando di dare il massimo nella direzione da loro proposta. Questa versatilità la porto nelle mie coreografie, la mia cifra stilistica si sta delineando, il linguaggio si plasma al servizio dell’idea, della musica del messaggio che desidero trasmettere.

Quando si parla di uomini è sempre curioso il motivo che ci ha portati a studiare danza. Il tuo motivo qual è stato?

Mia sorella ballava a livello agonistico e sin da bambino cercavo di imitarla. Questo desiderio di emulazione è poi sfociato in altro. Ho iniziato con l’hip hop e la danza moderna. A 14 anni conobbi Giuliano Peparini ed Erika Silgoner, capii guardandoli, che se solo avessi voluto minimamente raggiungere il loro livello, avrei dovuto impegnarmi di più e studiare seriamente danza classica. Iniziai ad andare a Catania tre volte alla settimana e la mia insegnante mi preparò per l’audizione all’Accademia del Teatro alla Scala. Superai il provino e frequentai il sesto, settimo e ottavo corso, diplomandomi.

Gli anni della scuola non furono affatto semplici. Arrivato da una realtà privata avevo tutto da imparare. In più non avendo le doti fisiche proprie del danzatore classico vivevo ogni esame come un momento di angoscia. Durante il secondo anno ebbi un infortunio che mi portò a saltare le lezioni per tre mesi, riprendendomi a un mese dall’esame finale. L’ottavo anno fu quello della rivalsa. Arrivò Pompea Santoro che montò per la scuola “La Bella addormentata” di Mats Ek ed ebbi il primo ruolo. Successivamente gli esami e il diploma andarono molto bene. Allora era Direttrice Anna Maria Prina, severissima certo, ma mia grande sostenitrice.

Partecipai, durante gli anni della scuola, ad alcune produzioni della compagnia scaligera ma ero consapevole di poter dare il massimo in un ensemble contemporaneo. Iniziai a fare varie audizioni ed entrai al Ballet de l’Opera National du Rhin, l’anno successivo riuscì ad entrare al Ballet du Grand Theatre de Geneve, tra le migliori compagnie contemporanee d’Europa che aveva un vasto repertorio, dove rimasi per cinque anni. Fu bellissimo e formativo.

Dopo questo lungo periodo a Ginevra, entrasti all’Aterballetto.

Ad un certo punto mi resi conto che a Ginevra non avevo più possibilità di crescere e decisi di tornare in Italia. Feci l’audizione all’Aterballetto, la migliore realtà italiana nella danza contemporanea. La Direzione affidata a Cristina Bozzolini aveva molta attenzione per le esigenze e le caratteristiche di ognuno. Me ne innamorai e rimasi a Reggio Emilia per sette anni.

La danza è una scelta o un sacrificio?

Assolutamente una scelta. Dei sacrifici ti accorgi dopo, col passare del tempo. Mentre studi o lavori non fai caso alle rinunce perché stai perseguendo un sogno.

Quando hai intrapreso la strada dell’insegnamento?

Durante gli anni all’Aterballetto avevo iniziato a dare qualche stage e qualche lezione. L’impegno principale rimaneva però la compagnia. Col passare del tempo la richiesta di avermi come insegnante aumentava sempre di più, di pari passo con la soddisfazione che questo tipo di ruolo mi regalava. Tra il lavoro in compagnia e la mia nuova esperienza come maestro non passava giorno senza che lavorassi su più fronti. Tant’è che l’attuale Direttrice dell’Aterballetto, Sveva Berti, mi chiamò dicendomi che andava tutto bene ma che non ero una macchina e dovevo fare attenzione, ha sempre tenuto alla salute dei suoi danzatori. Dopo qualche tempo, la decisione di lasciare l’Ater per intraprendere la carriera da freelance.

Che voto ti daresti come danzatore?

Credo 8.

Come Maestro?

Ripeto, mi piace moltissimo insegnare ma non posso giudicarmi. Bisognerebbe chiederlo agli allievi.

E come coreografo?

Non ne ho davvero idea. Ho davanti agli occhi troppi grandi geni per poter anche solo azzardare un voto in tal senso.

Che cosa di bello ha portato la danza nella tua vita e che cosa, invece, ti ha tolto?

La possibilità di viaggiare, di vivere in tanti posti diversi, conoscere un’infinità di persone, lingue culture differenti, condividere un percorso artistico ed umano con colleghi che sono diventati amici fraterni. Se penso a ciò che mi ha tolto, penso alla mia famiglia, ai miei nipoti che vedo pochissimo, alla lontananza che mi impedisce di vivere con tutti loro momenti importanti o semplicemente la quotidianità. Ma va bene così, la mia vita da freelance mi piace e mi appaga. Posso scegliere quando e con chi lavorare, ritagliarmi momenti di fuga da trascorrere con le persone che amo.

Qual è stata la notte più bella, lavorativamente parlando, che hai vissuto?

Avevo 23 anni e interpretavo Romeo col “Balletto di Ginevra” al Teatro Greco di Taormina. Tornavo a casa mia, nel teatro più bello della Sicilia, interpretavo un primo ruolo e tutti, parenti e amici, erano lì a guardarmi. Quella serata non la scorderò mai. Poi anni dopo, in Aterballetto, ebbi la fortuna di interpretare un famoso passo a due di Jiri Kyliàn, e di lavorarlo direttamente con lui. Non posso descrivere l’emozione che provai. Per me lui è pari a una divinità. Era, ed è tuttora, l’essenza stessa della danza.

E la più brutta?

Paradossalmente è legata allo stesso passo a due di cui sopra. Ballavo a Tel Aviv e avevo già dato le mie dimissioni. Sapevo quindi che avrei danzato quella coreografia che amavo infinitamente e che tante soddisfazioni mi aveva dato, per l’ultima volta. Ricordo le lacrime e la sensazione, fortissima che stava volgendo al termine un periodo bellissimo della mia vita.

Sei ancora giovanissimo, ma se dovessi pensare a te fra 10 o 15 anni, dove ti vedi?

Avrò un mio gruppo da curare, una mia compagnia. Di certo voglio trovare il modo di esprimermi e raccontarmi.

Ti reputi ambizioso?

Più che ambizioso sono esigente. Con me stesso prima di tutto.

Che persona sei?

Socievole, empatica, senza pregiudizi, forse un po’ ingenua. Tendo a fidarmi delle persone e a volte ne ho pagato le conseguenze.

C’è una domanda che non ti è mai stata fatta e che invece vorresti ti venisse proposta?

Mi piacerebbe che mi venisse chiesto che cosa cerco in un danzatore.

E quale sarebbe la risposta?

Non riesco a pensare a qualcosa di tecnico o fisico. Se mi rapporto con un ballerino, professionista o allievo che sia, cerco sempre di avvicinarmi all’essenza della singola persona, cerco il compromesso per far sì che il mio messaggio, se pur rielaborato, passi attraverso il suo corpo e venga trasmesso nel miglior modo possibile dall’artista che ne è portatore. La tecnica e l’estetica devono essere rispettate, ma quello che arriva al pubblico è il messaggio.

Da un punto di vista umano che cosa ti auguri?

Spesso la vita di un artista di successo è segnata da una profonda solitudine, non è il mio caso e mi auguro che questo non cambi in futuro.

Foto: Mariano Bevilacqua

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