Sabrina Bosco:” Come mi definirei oggi? sensibile, determinata e..serena”

di Francesco Borelli
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In te convivono tre anime differenti: danzatrice, maître apprezzatissima e infine coreografa. Quale di questi tre ruoli è predominante? In quale ti ritrovi maggiormente?

Credo che ogni ruolo corrisponda a un semplice divenire del mio essere ballerina. La danzatrice ritorna sia nell’insegnamento, sia quando seguo le prove di una compagnia sia quando mi cimento nella coreografia. Mi immedesimo totalmente nei ruoli, nei passi, nell’interpretazione e anche nelle correzioni. Ed è così che la ballerina vive sul palco anche se lo spettacolo è portato in scena da altri.

Credo sia importante aver danzato nella propria carriera; forse è questo che mi permette di creare un feeling prezioso coi ballerini con cui lavoro. Certo, è vero che abbiamo due funzioni diverse, ma in sala siamo danzatori che si confrontano. E questo rende tutto più facile, e più bello.

Dopo un periodo di collaborazione con Olga Pango, sei stata invitata a creare un balletto per la compagnia del Macedonian Opera Ballet. Ce ne parli?

Come hai ben detto, dopo un periodo di lavoro con la compagnia mi è stato chiesto di pensare a una coreografia che si distanziasse da quelle tipiche del teatro. Il Macedonian Opera Ballet è una compagnia di stato e gode di un repertorio prevalentemente classico; l’obiettivo era proporre una produzione che donasse ai danzatori imput diversi sia da un punto di vista musicale che stilistico. Ed è nata così l’idea di LIBERTANGO. Nel lavorio che ha preceduto l’aspetto coreografico sono stata affiancata da una persona che ha curato, nel dettaglio, la drammaturgia, questo per regalare al pubblico non solo immagini e quadri ballati ma una narrazione vera e propria che attraverso la danza raccontasse una storia.

Partendo dall’arrivo degli emigrati italiani in Argentina raccontiamo la vita di Astor Piazzolla che è presente in scena in tre diversi momenti della sua esistenza: bambino, adulto e infine anziano. In scena un bandoneòn, regalato all’Astor bambino dal nonno, che nei passaggi da un’età all’altra, è scambiato dall’interprete di Piazzolla con un’arancia, simbolo della creatività e dell’arte. Ѐ stato il Maestro Beppe Menegatti a svelarmi il significato dell’arancia. Per me lui rimane una fonte inesauribile di sapere e conoscenza.

Prima hai sottolineato l’importanza dell’aver danzato prima di diventare coreografi. Oggi molte persone si approcciano alla coreografia scevre di questo tipo di esperienza. Si può essere ugualmente creativi oppure mancherà sempre qualcosa ai suddetti coreografi?

Io non credo che si possa parlare di mancanze. Trattasi semplicemente di un modo differente di porre in palcoscenico la propria artisticità. Certamente risulterà diverso il metodo di lavoro, ma questo, probabilmente, è un bene perché si dà vita a prodotti eterogenei, regalando al pubblico una maggiore versatilità di proposte. I coreografi che son stati meno ballerini sviluppano un metodo più loro, un linguaggio che non viene da una carriera ballettistica fatto di repertorio classico, neoclassico e moderno vissuto sul proprio corpo.

Che tipo di ballerina sei stata?

Nella prima parte della mia carriera sono stata una danzatrice molto legata al classico, una ballerina di linea utilizzata in un determinato tipo di produzione. Lavorare all’estero poi, ha aperto decisamente i miei orizzonti spingendomi, sempre, a provare nuove cose e cimentarmi in repertori differenti mettendomi, ogni volta, alla prova. Anche oggi che non danzo più vedo me stessa come una ballerina in divenire. Il contatto coi ballerini più giovani mi regala sempre qualcosa, mi permette di acquisire nuovi metodi, nuovi spunti che servono alla mia carriera di maître e coreografa.

Qual è stato l’incontro che ti ha portato, per la prima volta, a cambiare il repertorio in cui danzare?

Stavo facendo una lezione con la compagnia dell’Opera di Colonia e il Direttore Jochen Ulrich mi chiamò subito dopo, proponendomi di interpretare la bambola nella nuova produzione di Coppelia. Sapevo che Ulrich era un coreografo molto più moderno rispetto ai signori con cui avevo lavorato fino a quel momento, ma mi buttai. Due volte alla settimana la lezione di classico era sostituita dalla lezione di Graham e capii che questo nuovo mondo era interessante e in esso mi ritrovavo perfettamente. Fu così che aprii i miei orizzonti. Era il 1993.

Dove ti sei formata?

Sono nata come ballerina al Teatro Nuovo di Torino con Ramona De Saa, donna austera e estremamente rigida ma che mi ha dato la formazione necessaria per affrontare una carriera professionale. Allora, il Teatro Nuovo aveva una compagnia presso cui passavano i più grandi artisti italiani. Tra loro Paolo Bortoluzzi che, in seguito a una “Madama Buttefly”, mi chiese se avevo piacere di tentare l’audizione presso la DEUTSCHE OPER AM RHEIN DÜSSELDORF come ballerina. Fui presa e iniziò la mia carriera all’estero.

Continui a lavorare all’estero per oltre diciotto anni, divisa tra Germania e Austria fino a quando non decidesti di tornare in Italia. Perché?

Fu in seguito ad un invito al Teatro dell’Opera di Roma da parte della signora Carla Fracci, per la messa in scena di Romeo e Giulietta. Grazie a Giuseppe Picone che parlò di me alla Signora, fui chiamata a Roma per dare una lezione alla compagnia. Ero agitatissima in quanto da sempre avevo vissuto nel mito della Signora Fracci. Nacque un’opportunità di lavoro importante ma anche un bellissimo rapporto che ancora oggi considero come uno dei più bei regali che la vita mi ha fatto.  Comunque accettai di rimanere in posizione stabile come Maître de Ballet e sua Assistente.

Hai definito Ramona De Saa una maestra austera e rigida. Tu che insegnante sei?

Sono certamente severa. Il mio compito è trasmettere ai ragazzi la passione per questo lavoro ma anche fargli comprendere che si tratta di un mestiere difficile per il quale occorre impegnarsi al massimo. Però, alla formazione accademica, aggiungo particolare attenzione alla persona, così da curare lo sviluppo dell’individuo che solo in questo modo può divenire un’artista. Tecnica e sentimenti convergono e rendono tutto più bello. Lavorare così ti regala più batoste ma nello stesso tempo più soddisfazioni sia a livello umano che professionale.

In una carriera fatta di tanti successi e scelte felici, pensi di aver commesso degli errori? E se sì, quali?

Se c’è una cosa che mi rimprovero è di aver, in alcune occasioni, osato troppo poco. Oggi con la maturità data dal trascorrere del tempo, mi butterei di più. Ma si sa, quando si è molto giovani non c’è l’esperienza e la lungimiranza e spesso, si tende a rimanere nella propria zona di comfort. Poi venivo da una famiglia di burocrati e per quanto mi siano stati vicini, soprattutto quando a diciott’anni anni mi trovavo all’estero, non potevano capire le necessità di una carriera artistica. Quindi il consiglio era quello di mamma e papà, non certo di una persona del nostro campo. Ma va bene così.

Quali sono le differenze, secondo te, tra la danza in Italia e nel resto dell’Europa?

All’estero c’è maggiore rispetto per la figura dell’artista. Essere un danzatore del Teatro dell’Opera per esempio, equivale ad essere un avvocato, un medico o un qualsiasi libero professionista. In Italia non è così. Poi esiste una cosa chiamata meritocrazia, ahimè quasi sconosciuta nel nostro paese. Infine l’arte non è politicizzata e i contratti di cui si dispone permettono a un ballerino di vivere più che dignitosamente. Insomma c’è attenzione alla danza, e non alle parole. Pensiamo ai Direttori dei corpi di ballo italiani, quei pochi rimasti: per quanto capaci e competenti spesso devono sottostare a una serie di regole date da una sovraintendenza che non opera a favore della danza. Quasi mai.

Credo che di fondo esista un problema culturale che non aiuta. Penso alle istituzioni che dovrebbero educare maggiormente il pubblico sin dalla tenera infanzia: creare spettacoli ad hoc, far appassionare i giovanissimi, portarli a teatro regalandogli spettacoli di qualità. In Italia esiste un pubblico di appassionati che ama la danza, la lirica o la prosa e segue tutti gli spettacoli proposti. Ma bisognerebbe coinvolgere un pubblico più ampio con produzioni in grado di attirare anche chi non ama particolarmente il balletto. Ci vorrebbero spettacoli mirati in grado di soddisfare ogni tipo di palato. E questo non accade.

C’è qualcuno in particolare a cui senti di dover dire grazie?

Il primo è certamente per Paolo Bortoluzzi. Grazie a lui, ai suoi saggi consigli, mi si è aperta una carriera all’estero che da giovanissima non avrei mai immaginato. Poi Gyula Harangozo che come Direttore del ballo allo Staats Oper di Vienna mi sostenne in un periodo particolarmente difficile. Grazie a lui, non feci scelte azzardate che avrebbero compromesso la mia carriera futura. Poi Giuseppe Picone e infine Carla Fracci e Beppe Menegatti, grazie ai quali sono ritornata in Italia dopo tantissimi anni.

La vita di un’artista è fatta di luci ma anche di difficoltà e momenti bui. Quali sono stati per te?

In primis il distacco dalla famiglia, la lontananza, la difficoltà di vivere con la valigia in mano. E poi la solitudine. E lo sconforto. Nel nostro lavoro c’è grande competizione. Si vive di confronti quotidiani con sé stessi e con gli altri. Oggi però a cinquant’anni rifarei tutto.

Spesso, in questa nostra chiacchierata, hai sottolineato come il trascorrere del tempo abbia segnato nella tua vita spartiacque importanti. Oggi, a cinquant’anni, chi sei?

Una semplice ballerina che ha sempre creduto e tuttora crede nel suo lavoro.

Se dovessi usare tre aggettivi per definirti?

Sensibile, determinata e, serena.

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