Alessandra Costa: una scrittrice di emozioni con il naso da clown

di Francesco Borelli
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Danzatrice, coreografa, insegnante. Donna bella con occhi che raccontano. Una scrittrice di emozioni piena d’amore per il proprio lavoro. Umile e forte, coraggiosa e capace. Incontrarla è significato scoprire un mondo pieno di bellezza e talento, un mondo in cui sarebbe bello entrare per non lasciarlo più.

Quale fu il motivo che ti spinse a entrare per la prima volta in una scuola di danza?

Da piccola volevo fare la ginnasta. E studiavo in tal senso. Poi a Saronno, la cittadina in cui vivevo, partì un corso di modern jazz e decisi di cominciare. Il mio insegnante era Lucio Presta. Oggi il più grande manager italiano; allora uno dei ballerini di Heather Parisi. Fu lui a spingermi verso la danza sottolineando che sarei potuta diventare una brava ballerina. Lasciai i miei studi per un anno e ci provai. Ero già grande. Avevo diciannove anni. Ma dopo solo qualche mese di studio iniziai la mia prima tournee con Theophill Zadith, un coreografo francese di origini martinichesi. Con lui viaggiai in mezzo mondo. Mi sembrava di sognare. Un’altra figura importante in quei primi anni fu il maestro Walter Venditti. Maestro grande e persona splendida.

Anni in cui per i danzatori c’erano infinite possibilità. Che cosa è cambiato oggi rispetto allora?

Mi spiace molto per i ragazzi che si affacciano adesso alla professione del ballerino. Le occasioni sono molto meno rispetto ai miei tempi. Ed eravamo diversi noi. Vivevamo nelle scuole di danza. Il California, la SPID erano le nostre case. Passavamo lì intere giornate e godevamo della danza nel vero senso della parola. Con alcune amiche e colleghe inventammo anche un gruppo: le Crazy Sisters. Eravamo io, Anna Larghi, Mariangela Laquaniti e altre. Lavorammo tanto, divertendoci. E poi c’era uno scambio continuo. Oggi i ragazzi vengono nelle scuole, fanno lezioni, vanno via. Manca quello spirito di comunione totale che allora esisteva. La nostra forza, il nostro entusiasmo veniva dalla condivisione, dallo stare assieme. Ed era bellissimo.

Rispetto al periodo di cui parli, gli anni 80, le cose in Italia sono cambiate in peggio secondo te?

Io cerco sempre di essere positiva. Altrimenti ci si ferma. Ma oggi esistono difficoltà concrete. E non solo per i danzatori. A ventotto anni ho lasciato l’Italia per la Francia. Ho vissuto sedici anni a Parigi. Per intraprendere lavori che presuppongano un progetto che non si esaurisce in una sola data, l’unica cosa da fare è andar via. Non perché in Italia non ci si debba rimanere. Ma per i danzatori contemporanei o di Teatro Danza qui c’è poco da fare. In Francia esistono coreografi italiani di successo che son dovuti emigrare per riuscire a realizzare delle cose. In Italia manca una cultura in tal senso.

Prima raccontavi che all’inizio della tua carriera ti sei dedicata al commerciale. Poi sei passata alla danza contemporanea e al Teatro Danza. Quando è avvenuto questo passaggio?

Già nei primi anni prendevo lezioni di danza contemporanea di cui m’interessava il lato espressivo. Studiavo con Enzo Procopio e partecipai alle sue prime creazioni. Con il trasferimento a Parigi capii che volevo dedicarmi più a questo stile che al resto. E così fu.

Qual è la differenza tra il lavoratore dello spettacolo e l’artista?

La parola artista ha un’importanza immensa. Chi può definirsi tale? Io da parte mia mi definisco una persona che fa danza. E la danza è l’arma che ho a disposizione per vivere meglio. Non so se ciò che faccio sia arte o meno. Non sono mai pienamente soddisfatta di me. Di certo, arrivare alla gente e riuscire a emozionare è il primo grande risultato. In quei casi mi sento importante per qualcuno. E mi sento bene.

Da cosa ti fai ispirare? Quali sono gli strumenti che utilizzi per creare uno spettacolo?

Le emozioni mi portano a visualizzare le cose e poi a creare.

Da danzatrice qual è il lavoro che ricordi con più piacere?

È così difficile scegliere. Forse il lavoro che, inizialmente, mi ha fatto sentire più fiera di me è stato la tournee con Gene Anthony Ray. Mi ritrovavo per la prima volta sui giornali nazionali e danzavo un assolo. Ero così giovane da sentirmi esaltata. Però i lavori in cui mi sono sentita emotivamente coinvolta e in cui ho sentito l’umanità della danza svelarsi a me sono state le creazioni di Enzo Procopio. Dico sempre che “Petali” il primo lavoro fatto con lui mi ha salvato la vita. Coincise con un momento in cui scoprii di soffrire di una brutta patologia ed ebbi la notizia in un giorno di sala prove. La danza fu per me un’arma per affrontare la malattia. Fu terapeutica. Superai le cose danzando. Ed è una cosa che dico a tutti i miei allievi.

Quando ti sei sentita pronta per diventare una coreografa?

Ho sempre fatto coreografia. Ma il momento in cui ho deciso di non danzare più e di dedicarmi alla coreografia è coinciso col trasferimento a Parigi. Presi tutti i miei risparmi e li investii nella mia compagnia. Avevo voglia di vedere le mie idee prendere forma sugli altri.

Fra i tanti spettacoli creati quale ti rappresenta meglio?

Non lo so. Ogni creazione è differente. Il primo fu di certo una grande sfida. Il titolo era “Et à part l’amour et le chocolat?” e trattavo del rapporto di coppia e delle difficoltà di trovare un equilibrio. E poi “Poeta me”, il secondo spettacolo che ho creato tornando in Italia.

La passione per l’insegnamento com’è nata?

Ho sempre insegnato… Fin da giovanissima. All’inizio però guardavo molto me stessa. Oggi non capita più. Mi concentro subito sugli altri. Amo insegnare e voglio aiutare le persone a cambiare se stesse e migliorarsi.

Da qualche anno ti occupi di un importante progetto dell’Arcobaleno Danza, la grande scuola milanese diretta da Emanuela Grungo. Di cosa si tratta?

Appena tornata dalla Francia incontrai Emanuela che vide in me una persona in cui riporre la propria fiducia. Sono stati tanti i progetti attuati. Ma il più importante e bello è di certo l’ultimo. Si chiama “Danza in Scena” ed esiste da tre anni. Un mini percorso per tutti i danzatori che vogliono dedicarsi alla danza contemporanea o al teatro danza. L’obiettivo è di studiare e di imparare direttamente sul campo attraverso esperienze di scena.

Cosa state preparando in questo momento?

Innanzitutto abbiamo in cantiere un progetto con Ivana Di Martino, una runner con una importante storia di vita alle spalle. La seguiremo nel suo itinerario dall’est all’ovest dell’Europa, accompagnandola con performance create appositamente. Una di esse prevede uno spettacolo che durerà tutto il tempo che lei impiegherà per andare da una tappa all’altra del suo tragitto. La sosterremo attraverso la danza. Faremo “Chilometri di danza”. E poi stiamo rimontando “Tre stanze”, una performance interattiva in collaborazione con uno scultore milanese, Attilio Forte. E con loro rimonterò “Poeta me”, lo spettacolo di cui parlavo prima.

Parliamo di “Come Erika e Omar”, lo spettacolo con la regia di Enzo Iacchetti di cui hai curato le coreografie.

All’inizio ero un po’ titubante. Non sapevo se accettare o no. Il tema trattato mi spaventava e non riuscivo a capire quale sarebbe potuto essere il mio apporto. Non amo per niente le trasmissioni che trattano insistentemente certi temi e soprattutto l’aspetto voyeuristico che caratterizza l’italiano medio. E temevo che un musical che facesse il verso a questi argomenti potesse essere male interpretato. Poi ho preso appuntamento con gli autori ed Enzo Iacchetti e quando ho capito che lo spettacolo voleva essere una denuncia di tutto ciò, ho detto di sì.

Come ti sei approcciata coreograficamente a uno spettacolo di questo tipo?

Avevo a che fare solo con attori e non danzatori. Il mio approccio è stato grottesco e a tratti ironico. Ho cercato un linguaggio gestuale. Certo, danzante, ma non tecnico. Ho ripreso anche vecchie sigle televisive come “La notte vola” di Lorella Cuccarini torturandole un po’. E alla fine mi sono sentita felice e soddisfatta. La critica si è divisa. E molti hanno giudicato a priori. Invece, a mio avviso, lo spettacolo spiega in modo ironico come in Italia sia diventato tutto un grande carrozzone, un circo. Ed è bello che esista uno show che spieghi e denunci tutto questo.

Ti senti soddisfatta di te? Della tua vita?

A volte vorrei nascondermi sotto le coperte e non uscire più. Ma penso sia consuetudine per tutti. Però alla fine mi sento privilegiata. L’amore per la danza mi è arrivato inaspettato e mi ha difeso per tutta la vita.

Mi daresti una definizione di te stessa?

Che domanda difficile. Non vorrei sembrare presuntuosa ma mi viene in mente la splendida Giulietta Masina. Il suo trucco da pagliaccio, la sua malinconia. Capita che le mie tristezze e le mie emozioni, a volte, m’invadano. Ma posso essere anche un clown e divertirmi. Mi vedo con un naso da pagliaccio e l’anima piena di emozioni da tirare fuori. Ecco, mi definirei una scrittrice di emozioni attraverso il movimento del corpo.

Cosa farà da grande Alessandra Costa?

Vorrei continuare a dedicarmi alle mie creazioni. “Finché morte non mi separi”. Per me è necessità pura. Senza, morirei.

 Alla fine dell’intervista ci siamo salutati con un abbraccio. Non so se sia facile scrivere emozioni attraverso il movimento del corpo. Più semplice piangere e urlare, ridere e parlare. Ma Alessandra Costa è capace di farlo. Lo si legge tra le sue parole, in quegli occhi belli di cui all’inizio parlavo. Un altro viaggio, un altro incontro da aggiungere ai tanti fatti e ai tanti che farò.

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