Nel mondo della danza, in ambito professionale e formativo, si parla spesso della presenza di una “sana competizione” come elemento indispensabile per infondere slancio all’apprendimento. Oggi vorrei provare con voi a sviscerare questo sentimento e guardarci dentro, per comprendere se davvero questa competitività sia davvero “sana” per le persone che s’impegnano nella pratica della danza.
Il dizionario ci spiega che la parola competizione indica un contrasto, una lotta per raggiungere il riconoscimento di una superiorità. In ecologia e in botanica questa parola riguarda qualsiasi manifestazione di antagonismo, sia interspecie che intraspecie, in cui un gruppo di individui opera strategie per sottrarre risorse ad altri gruppi, imponendosi numericamente e territorialmente a scapito degli altri. Competitività invece, per estensione, indica l’attitudine a considerare la competizione una norma o un valore sociale, adottandola come strategia di vita in continua contrapposizione con gli altri, percepiti come avversari.
Provate a rileggere queste definizioni e ditemi, in cuor vostro, se questi concetti somigliano in qualche modo alla danza, alla sua parte più bella, legata al rito, alla celebrazione della gioia di vivere e alla bellezza. Cosa c’è di “sano” in questi atteggiamenti? Davvero vogliamo formare nella danza considerando questi comportamenti come virtuosi?
Sappiamo bene come l’inquadramento giuridico della danza (se così vogliamo chiamarlo) nel mondo sportivo agonistico abbia portato come effetto collaterale il fiorire di tanti concorsi, a tutti gli effetti delle competizioni. La conseguenza di questo (e di altre concause) è che oggi viene culturalmente accettato che la danza venga valutata, giudicata e premiata come accade in una gara sportiva, ma queste pratiche hanno fortemente contribuito nel tempo ad uno spostamento dell’attenzione dalla qualità alla quantità, da un sentito interiore ad una manifestazione esteriore e personalmente non penso sia proprio questo il compito più nobile della danza.
Credo che le parole siano portatrici di mondi. Questi mondi non sono costituiti solo dal significato che personalmente diamo alle parole che usiamo, ma sono il risultato di stratificazioni ereditate dalla cultura, dalla famiglia, dalla società, dalla storia e dalla politica. Quando siamo nel ruolo di chi trasmette gli insegnamenti, specialmente in una pratica come la danza che è stata tramandata quasi sempre oralmente da maestro ad allievo, la scelta delle parole diventa cruciale per imprimere nel campo le giuste vibrazioni, quelle che meglio sostengono gli obiettivi che ci siamo prefissati, poiché le vibrazioni delle parole hanno un effetto sulla realtà che seguirà all’impressione di quel suono.
Sebbene comprenda molto bene il senso profondo con cui viene usata da alcuni maestri la parola “competizione”, secondo me possiamo trovare una parola diversa e più puntuale per indicare questo fuoco ardente che porta chi studia danza con passione a volersi migliorare ogni giorno, a permanere in questo stato di sfida verso sé stessi per oltrepassare i propri limiti psichici e fisici.
Nei tanti libri di arti marziali, arte della spada e ninjutsu che leggo avidamente per un’insana passione verso questo mondo, un dettaglio ha sempre attirato la mia attenzione: il maestro non parla quasi mai durante le sessioni di pratica. Gli allievi più giovani e i principianti si trovano ad osservare il maestro che combatte con gli allievi migliori e questa è la lezione, il principale metodo di trasmissione. La mente occidentale ha sempre bisogno di nutrire l’intelletto, di ricevere spiegazioni prima di agire con il corpo, ma dal momento che l’arte della spada è una pratica che mira a eludere la mente per agire attraverso la vacuità interiore, rispondendo istintivamente alle sollecitazioni dall’esterno, il maestro non spiega nulla per non attivare quella parte dello psico-organismo.
Questa modalità sviluppa incredibilmente la capacità di osservazione degli allievi e anche una serie di abilità nel risolvere autonomamente le problematiche che si possono incontrare, tutte competenze indispensabili per ogni combattente. Questo comporta anche un movimento importante della psiche: si osserva per imparare, per apprendere, ci si pone con umiltà nei confronti di chi è più esperto e anziano, con l’obiettivo di carpire la sua maestria, la grazia, la velocità di movimento durante un combattimento. In un ambito dove sopraffare l’avversario è l’obiettivo finale, l’atteggiamento è quello di guardare le mosse dell’altro per apprenderle, per farle proprie, per imparare da lui (o da lei). Innumerevoli sono i racconti in cui gli spadaccini sono onorati di essere battuti, e questo spesso vuol dire uccisi, da un avversario verso cui si nutre grande stima e ammirazione.
Portando questo insegnamento nella danza, una pratica in cui – beninteso – l’obiettivo non è sopraffare l’altro, non ci sono avversari da combattere, direi che potremmo sostituire il concetto di “sana competizione” con quello di “sana osservazione”.
Guardare l’altro con l’intenzione di imparare da lui (o da lei) è tutt’altra attitudine rispetto a quella di osservare per voler essere migliori, concetto del tutto fuorviante quando si parla di espressione creativa. Esistono artisti riconosciuti e ammirati da tutti, trasversalmente da critica e pubblico, che non risuonano con il mio sentire e che non riesco ad apprezzare. Tra i miei danzatori preferiti (la lista è piuttosto lunga) non saprei indicare il migliore in assoluto, ognuno di loro è unico nel suo genere e nel contesto socio-culturale in cui si esprime, come potrei scegliere? Una piccola parte di ognuno di loro vive nel mio modo di concepire la danza, perché li ho ammirati, osservati attentamente e ho cercato di emularli, fin da quando ero bambina.
Osservare l’altro cercando di carpire cosa ci piace della sua danza è un bellissimo modo di imparare attraverso la condivisione e non la competizione. Quando siamo a lezione possiamo apprezzare i dettagli del movimento degli altri e cercare di farli nostri, possiamo osservare attentamente le grandi stelle della danza che amiamo di più, cogliendo gli aspetti che troviamo più interessanti e provare a metterceli addosso. Che si tratti di una particolare musicalità, un segno stilistico, un accorgimento tecnico che attrae la nostra attenzione, un modo di muovere le mani o di esprimere attraverso il viso. Osservare è già studiare e se lo facciamo con intenzioni costruttive e non distruttive porterà beneficio a noi e anche agli altri, perché a nostra volta saremo oggetto di osservazione e ispirazione per qualcuno.
È questa la visione della danza che trovo davvero “sana” e che mi piace alimentare a lezione adottando piccoli accorgimenti che mi aiutano a valorizzare ogni singolo allievo e farlo sentire importante per sé stesso e anche per la piccola comunità della classe, annichilendo ogni tentativo di sopraffazione da parte del singolo e suggerendo invece la possibilità di condividere bellezza e saperi.
Il mondo della danza è già abbastanza duro, ci si confronta ogni giorno con la difficoltà di affrontare sfide sempre nuove, stanchezza, dolori, infortuni, delusioni, non occorre aggiungere anche il coltello tra i denti. Penso invece che un clima di mutuo sostegno e reciproca stima all’interno di un gruppo danzante, che sia una classe o una compagnia di danza, non possa che supportare tutti, migliorare la qualità del lavoro e mantenere viva la gioia e la consapevolezza del privilegio di essere lì a fare quello che amiamo di più.
“Sana competizione”, quindi, così come “sana invidia” sono per me concetti inquinanti se applicati alla danza, perché poggiano sulle derive della mente condizionata e socio-culturalmente orientata verso il modello capitalista che guarda alla produttività e al profitto senza mai porsi domande sul percepito e sui moti interiori, ossia proprio quegli aspetti che ci rendono autenticamente umani.