Lia Courrier: “L’introduzione del safeguarder durante le lezioni di danza”

di Lia Courrier
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Tempo fa ha fatto tanto parlare il caso delle “farfalle” della ritmica italiana, un bubbone esploso a seguito delle dichiarazioni scottanti di due atlete in cui si parlava di abusi, violenze psicologiche e un corollario di maltrattamenti che hanno messo sotto i riflettori allenatori e dirigenti. Il processo mediatico che ne è seguito, nel corso del tempo, ha portato gli Enti sportivi che supervisionano l’associazionismo di settore (di cui purtroppo anche la danza fa parte) all’introduzione del cosiddetto “safeguarder”, figura di garanzia all’interno dell’associazione che ha il compito di vigilare sulla sicurezza fisica e psicologica degli associati, nonché sull’operato degli istruttori.

Gli Enti Sportivi hanno diffuso molto materiale online, sia scritto che video, per introdurre questo ennesimo adempimento per tutte le ASD e SSD, in cui si decanta l’importanza di questa figura nel panorama associazionistico sportivo. Sebbene inizialmente il safeguarder fosse richiesto solo in caso di presenza di minori tra gli associati che frequentano i corsi, come nella migliore tradizione “all’italiana” gli Enti sportivi consigliano anche alle associazioni con soci maggiorenni di fare tutto l’Iter, alla stessa stregua del tesserino tecnico che non è richiesto ai detentori di partita Iva ma poi alla fine ti obbligano a farlo lo stesso, ma questa è un’altra storia.

Il vademecum proposto specifica che il safeguarder è a disposizione per segnalazioni di varie tipologie di abuso: psicologico, fisico, sessuale, religioso, bullismo, cyberbullismo, con la possibilità di procedere in anonimato. Inoltre potrà fare sopralluoghi senza avvisare per controllare l’attività didattica dell’associazione. Questa figura, quindi, tutela gli associati corsisti ma non gli istruttori.

Intendiamoci, è importante che si mostri maggiore attenzione per la salute psicofisica degli associati, ma questo sistema ai miei occhi appare come una replica di quello presente già da tempo nei paesi dell’area anglofona, Gran Bretagna e Stati Uniti in primis, in cui non è consentito toccare l’allievo per correggerlo, con la compresenza di due docenti per i corsi dei piccoli in modo che uno controlli l’altro e in caso di controversie ci sia un testimone attendibile. Personalmente non ho mai considerato la cultura americana come qualcosa a cui ispirarmi, anzi, ho potuto osservare come questa idiosincrasia per il contatto fisico abbia prodotto mostri e gonfiato casi giudiziari basati sul niente. In America puoi rovinare la carriera di chiunque accusandolo di molestie perché già la denuncia in sé mette in cattiva luce la persona, senza che neanche ci sia stata una prima indagine o che il fattosi realmente accaduto, al punto da rendere estremamente difficile un reinserimento in ambito lavorativo.

Perché mai noi dovremmo prendere a modello un sistema così miope, che pone solo divieti, divide le persone impedendo loro di esprimersi liberamente, fomentando odio e risentimento, anziché portare attenzione alle intenzioni dietro alle parole e ai gesti?

Certamente sono in grado di dare le correzioni solo verbalmente, sono molto brava con l’uso delle parole, che tuttavia però non riescono a restituire l’infinita tavolozza di percezioni e sensazioni custodite nel corpo danzante. Personalmente non uso mai il tocco come primo strumento di trasmissione, perché sono consapevole di quanto parli alla profondità di noi stessi, ma quando conosco gli allievi da tempo, chiedendo il permesso prima, preferisco passare a questo tipo di comunicazione, più puntuale e precisa, interiore, che permette loro una migliore e trasformativa comprensione. Esistono discipline coreutiche e somatiche intrinsecamente legate al contatto fisico che non possono proprio essere svolte se non ci si può toccare, ma al di là di questo qui non si sta parlando di manipolare gli allievi come se fossero bambole rischiando di fare loro del male, quanto di suggerire, aiutare, facilitare attraverso un contato consapevole. Questo è il motivo per cui ho dedicato quattro anni alla mia formazione in tocco terapeutico imparando, attraverso la mia presenza fisica e mentale, a contattare gli allievi senza che si sentano minacciati fisicamente o sessualmente.

L’energia sessuale è molto potente, energia vitale e creativa per eccellenza, sottende ad ogni manifestazione umana e non solo all’atto sessuale in senso stretto. A seguito dei condizionamenti culturali e religiosi, acquisiti non solo nella nostra vita ma anche epigeneticamente dalla nostra tribù ancestrale,  la maggior parte delle persone preferisce non guardare a questo potere, se non relegandolo nell’angusta sfera genitale. Da qui l’ipersessualizzazione di ogni oggetto del mondo, di ogni gesto, dell’infanzia, del corpo delle donne: è questa l’origine del fraintendimento che ci fa vedere il contatto fisico come un crogiolo di pulsioni pruriginose e peccaminose che va bandito per non “cadere in tentazione”.

Eliminare il corpo dalla trasmissione di informazioni tra esseri umani vuol dire eliminare le emozioni, di cui può rimanere una traccia solo a livello mentale, laddove non possono essere esperite nella loro espressione più importante, ossia a livello somatico. Per tacere il fatto che i  traumi emotivi non possono trovare una naturale risoluzione se la persona non ha accesso a tutti i processi di guarigione che si manifestano attraverso il corpo. I bambini in particolare hanno bisogno di contatto fisico come dell’aria per respirare, bisognerà spiegargli come mai all’improvviso la maestra li tiene a distanza, senza abbracciarli quando lo richiedono o consolarli in un momento di fragilità.

Nella riunione di inizio d’anno è stata letta la lista di comportamenti non più considerati idonei secondo il safeguarding e mentre ascoltavo pensavo che questo sistema sembra proprio sia stato scritto con il chiaro intento di separarci, allontanarci, metterci gli uni contro agli altri. Un processo alle intenzioni in cui l’insegnante viene messo alla sbarra degli imputati in attesa di coglierlo in fallo, perché persino con le parole (strumento eletto secondo questo protocollo) bisogna stare attenti, è bene non dire nulla che non sia pertinente al dato tecnico, meglio non usare l’ironia per alleggerire l’atmosfera, insomma una trasmissione asettica e puramente mentale, ossia quanto di più lontano dalla danza io possa immaginare.

Tutti i presenti alla riunione, colleghi dotati di grande esperienza, intelligenza e preparazione in diversi ambiti della didattica, della danza e dell’umano, erano senza parole per questa novità, non tanto per le regole, che possiamo anche accettare di seguire per sostenere la scuola, ma per il messaggio intrinseco che queste portano con sé. Eravamo tristi per lo scenario futuro che questo tipo di approccio ci ha fatto prevedere, abbiamo percepito l’applicazione di questo protocollo come un passo indietro nella qualità della nostra didattica, un modo di eludere il problema di fondo, ficcando la testa sotto la sabbia anziché affrontarlo insieme, insegnanti, direttori e allievi.

Conosco realtà in cui operano insegnanti abusanti verbalmente e fisicamente, tante volte ne ho parlato su questa rubrica perché anche io ne ho incontrati sul mio cammino. Molto spesso i direttori di quelle realtà (il più delle volte scuole ammantate di un’aura di autorevolezza) sanno benissimo quello che accade ma non agiscono, gli allievi subiscono ma non segnalano nonostante ci siano già organi preposti per questo. Penso sia questa l’area di miglioramento su cui agire: aiutare le persone che non sanno come gestire le proprie emozioni a guardarle, nominarle e riconoscerle, onestamente non credo che i divieti nella storia dell’umanità abbiano mai dato risultati soddisfacenti senza un cammino di trasformazione interiore.

La danza è essenzialmente corpo che vive, muove, imita, cade, salta, gira, riposa, cambia, tocca, sente, percepisce, vibra. Se nello sport è possibile eludere questo aspetto così intimamente relazionato all’esistenza (questo non lo so perché non sono un istruttore sportivo ma un’insegnante di danza) nell’arte del movimento trovo sia impossibile.

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