Lia Courrier: “Il comportamento molesto del pubblico durante le rappresentazioni teatrali”

di Lia Courrier
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La scorsa settimana sono andata al Teatro Piccolo di Milano per vedere “Gli Anni”, titolo omonimo all’opera a cui è ispirato, del premio Nobel per la letteratura Annie Ernaux. Realizzato da Marco D’Agostin e manifestato in scena dal corpo e dalla storia della superba Marta Ciappina, quest’opera scenica ha vinto ben due prestigiosi premi Ubu: miglior spettacolo di danza e miglior performer.

Vado prima a teatro per ritirare i biglietti che Marta ha riservato per me, come sempre in largo anticipo e così resto fuori a godermi il fresco della sera mentre osservo il pubblico arrivare. Nessuna faccia nota tra queste persone e di questo sono contenta perché solitamente gli spettacoli di danza, specialmente di ricerca, sono disertati dal pubblico di non addetti ai lavori. Così come sono contenta di sapere che questa performance non è programmata in un festival o una rassegna con una data soltanto, ma inserita nella stagione del teatro per ben cinque serate.

Entro e prendo posto. La scena è nuda, fatta eccezione per qualche oggetto già posizionato. Dopo qualche minuto Marta fa il suo ingresso in scena, mentre il pubblico sta ancora entrando, silenziosa e misteriosa come un gatto esotico, e comincia a tracciare traiettorie e segni nello spazio con la sua magnifica qualità di movimento. Sta cercando il gesto, mostra la nascita di una sequenza coreografica come se la stesse trovando in quel momento. Ogni tanto si ferma per scrivere appunti su un taccuino, creando un accordo tacito con il pubblico, svelando il linguaggio attraverso cui questa storia verrà raccontata; un momento molto intenso, poetico e autentico.

La scelta registica prevede che in questa prima fase le luci di sala rimangano accese e purtroppo il pubblico non capisce che lo spettacolo è già cominciato, forse non si sono neanche accorti della presenza dell’artista in scena, dato il chiacchiericcio a voce alta che non accenna a diminuire neanche dopo diversi minuti.

Dietro di me un signore sta praticamente urlando ai suoi amici dove vorrebbe andare a mangiare, nella migliore tradizione italiana: un popolo che parla di cibo anche mentre mastica. Dopo qualche occhiataccia, di cui non si rende neanche conto per quanto è preso da quesa discussione, bisognerà chiedergli di fare silenzio o di andare da un’altra parte. La risposta sarà caratterizzata dal solito atteggiamento arrogante, prepotente e ignorante che emerge ogni qual volta che le persone vengono colte in fallo, anziché riconoscere l’errore e scusarsi.

Ad un certo punto la regia alza il volume del tappeto sonoro, le luci in sala lentamente si abbassano e l’interprete si porta in proscenio per guardare lungamente il pubblico, uno per uno, e poi cominciare a parlare. Questo è il momento in cui i poveretti si ricordano cosa sono lì a fare, peccato si siano persi i primi magici minuti che hanno introdotto non solo il soggetto, ma rivelato la genesi di una coreografia.

Non è la prima volta che assisto a tristi scene come questa, le persone ormai sono totalmente avulse da cosa voglia dire partecipare ad un rito teatrale, non sanno più stare nel ruolo del pubblico, tutt’altro che passivo, pensano di poter fruire del teatro così come stanno davanti alla televisione. Nelle mie serate teatrali degli ultimi anni, ho potuto assistere all’ostinazione di chi tiene il cellulare acceso per immortalare momenti dello spettacolo, nonostante l’annuncio prima dello spettacolo chieda di non farlo. Comportamento doppiamente ignorante perché non solo va contro alla politica del teatro, ma non tiene conto che la sala teatrale (come anche il cinema) è un luogo buio e le luci del cellulare disturbano gli altri spettatori che, come dissero Antonio Rezza e Flavia Mastrella in una famosa citazione: “sono venuti qui per vedere lo spettacolo, non la tua faccia”.

Possiamo anche considerare Milano una partita persa, non più meta ambita da registi e coreografi di una certa statura, per vedere i quali bisogna spostarsi altrove, in quei luoghi di cultura in cui ancora c’è un’attenzione che va oltre le esigenze di botteghino. Milano ama presentarsi al mondo come aperta, europea, internazionale, ma in fondo è provinciale fino al midollo, una città che ha perso così tanto la sua empatia e sensibilità da non accorgersi neanche che una persona è lì sul palcoscenico a danzare per loro. Mi duole dire che i teatri milanesi mi sembrano diventati salottini laccati e costosi, luoghi d’incontro mondani per abbonati annoiati che molte volte non sanno neanche cosa vanno a vedere, o non possiedono gli strumenti cognitivi ed emotivi per la lettura di un’opera, perdonate la rudezza di questo concetto.

Ad ogni modo, nonostante il contesto molesto, lo spettacolo è stato bellissimo, emozionante, commovente, pienamente meritevole dei premi e riconoscimenti che ha raccolto sulla sua strada. La prova di Marta Ciappina è stata grandiosa, perfettamente focalizzata, intensa, autentica, potente al punto da catturarmi totalmente e farmi dimenticare di tutto.
Un’opera che lascia il segno, questa, alla quale non si può assistere come all’ennesimo episodio di “Un posto al sole”, così come invece è avvenuto. Manca forse la consapevolezza che chi sta sul palcoscenico sente puntualmente la qualità dell’attenzione del pubblico, che è parte della riuscita di un’esecuzione dal vivo tanto quanto gli interpreti.

Penso che poche persone abbiano davvero idea di cosa voglia dire fare teatro: interminabili confronti su ogni singola parola da dire o non dire, energie per trovare la giusta sequenza di movimenti, momenti in cui si rimane incagliati, in stallo, senza decidersi su come andare avanti, cosa gettare via o tenere, decidere il disegno luci, costumi, oggetti, trovare un buon finale e un inizio efficace, e poi innumerevoli, infinite ore di prove affinché tutti questi elementi trovino posto fluidamente, coerentemente, senza mai tradire o allontanarsi dal racconto.

Se solo fossero previsti più laboratori teatrali e di movimento nei programmi scolastici, forse potremmo avere in futuro adulti sensibili al linguaggio dell’arte e consapevoli dell’estenuante, enorme lavoro che c’è dietro ad una messa in scena. Allora forse ci sarebbe più rispetto per i professionisti dello spettacolo dal vivo, che non sono immagini proiettate su uno schermo o giullari di corte, ma persone che si stanno mettendo a nudo in questo atto altruistico (almeno quando siamo al cospetto di artisti e non di piccoli narcisi) di donarsi e donare attraverso ossa, muscoli, tendini, sangue, cuore, voce, mente, anima, battiti, vibrazioni.

Quanto bisogna essere disconnessi dalla nostra natura di esseri che entrano in risonanza naturalmente gli uni con gli altri, per continuare a parlare ad alta voce mentre un’altra persona sta facendo un lavoro che chiede grande focalizzazione, per cui tra l’altro si è anche pagato un biglietto? Quanto è profondo il bisogno di farsi notare per fare simili comizi? Forse si tratta della stessa fame del piccolo ego che spinge a fare lunghe telefonate urlate sui mezzi pubblici, facendo ascoltare gli affari propri a tutti. Un’atavica urgenza di essere visti, ascoltati, considerati, dimora nei cuori feriti delle persone; la buona notizia è che esistono strumenti validi per guardare dentro a questo baratro per comprenderlo, dissolverlo, trasformarlo. Ancora una volta la soluzione è imparare ad osservarsi e scoprire che la libertà non è fare quello di cui si ha voglia quando se ne ha voglia, ma comportarsi in modo appropriato a seconda del contesto. Quando si ha voglia di fare serata con gli amici, divertirsi, ridere e parlare, basterà non andare a teatro, perché quello è un luogo di raccoglimento, condivisione e riflessione.

Il silenzio è decisamente sottovalutato in questa parte di mondo e in questa epoca.

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