Lia Courrier: “La categoria lamenta la mancanza di riconoscimento professionale. Cosa facciamo per migliorare le cose?”

di Lia Courrier
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Ho preso l’abitudine di monitorare i click sui miei articoli per individuare gli argomenti preferiti, che sollevano maggior interesse, che accendono maggiormente gli animi, che scatenano frizioni o quelli che invece non destano alcun interesse. Mi è stato dato in mano uno strumento divulgativo e cerco di utilizzarlo al meglio.

Qualcuno mi fa notare che dovrei fare attenzione ad esprimere opinioni perché pare proprio che questa rubrica sia seguita (di questo vi ringrazio) e vorrei rispondere a questa affermazione.

Innanzitutto vorrei far notare il mio mantra: “quello che scrivo è solo una mia idea, data dall’esperienza personale con la danza” che sebbene sia ormai lunga tre decenni, mi pone comunque anni luce dall’onniscienza, si tratta quindi solo della mia esperienza e se qualcuno ha qualcosa da dire sulla propria, potrà sempre scrivere articoli, curare un blog o pubblicare un libro, oggi ognuno può far sentire la propria voce in mille modi diversi, il fatto che io dica la mia non toglie valore agli altri, non confuta le altrui tesi, semmai si propone come punto di vista inedito. Seconda cosa: quando scrivo penso ai miei lettori come a persone dotate di cultura, intelligenza e spirito critico, non pensando che debbano sposare tutte le mie tesi e per fortuna in molti hanno corroborato questa mia sensazione esprimendosi attraverso i commenti critici ricevuti sotto alcune pubblicazioni. Per fortuna! Chi crede che con i miei articoli possa cambiare il pensiero degli altri vi sottovaluta, carissimi lettori, ma io no.

Controllare le reazioni agli articoli, quindi è un modo per conoscere meglio questo collettivo di menti, gusti, visioni e professioni di vario assortimento che compongono i lettori di questa rubrica: danzatori, insegnanti di danza ma anche appassionati e familiari di danzatori professionisti o in formazione. Un campione interessante da osservare per comprendere la percezione che i danzatori hanno di sé stessi e anche su come i danzatori vengono percepiti nella comunità.
Alcuni articoli hanno inaspettatamente raccolto centinaia di reazioni e commenti, nel bene e nel male, a volte sono stata molto criticata, altre ho ricevuto approvazione e commenti molto ispirati. Poi capitano quelle settimane in cui proprio, come si dice, calma piatta.

Con l’ultimo numero è stato così, eppure ho trattato un argomento che dovrebbe far saltare tutti sulla sedia. Non ci sono stati click né condivisioni e pochissimi commenti, forse uno soltanto (per chi si fosse perso lo scorso numero, si è parlato dell’imminente riforma dello sport che entrerà in vigore a partire dal 1° di luglio). Ebbene: l’indifferenza che viene riservata a queste tematiche così importanti e cruciali, specie alla luce della situazione in cui la danza e il suo insegnamento versano in questo paese, fa sempre sorgere in me tante riflessioni.

Quando la categoria lamenta la mancanza di riconoscimento professionale, quando gli insegnanti sono preoccupati per il futuro della danza e per la carriera dei propri allievi, esattamente come pensano di poter migliorare le cose? Nelle nostre menti sta prendendo forma un’idea, una visione per tentare di migliorare la situazione della danza italiana? Oppure si pensa che avere più risorse economiche sia l’unica soluzione possibile? Se così fosse credo proprio ci sia di fondo un grande errore di valutazione.

Per lasciare alle nuove generazioni una situazione migliore di quella che abbiamo trovato al nostro arrivo è necessario un po’ di impegno e senso della collettività, quell’attitudine a non agire guardando solo ai propri interessi ma anche al bene di tutti, soprattutto è necessario prendere una posizione chiara, gesto che oggi risulta un po’ démodé, bisogna dirlo.

A me pare che vada bene a tutti questa situazione di sommerso e illegalità in cui ci troviamo ma allora ammettiamolo chiaramente, spolpiamoci l’osso finché non rimane più niente e non pensiamoci più. In tal caso però sarebbe opportuno non lamentarsi, accettando pacificamente di essere parte di quel sistema che la danza, nel corso degli ultimi decenni, l’ha smantellata, smembrata, lacerata in mille piccoli brandelli.

La danza è impegno, sudore, una considerevole dose di fatica, caparbietà, forza di volontà, sicuramente. La danza è tutte queste cose e anche tante emozioni (queste le tematiche che riscuotono un successo trasversale e ovviamente anche quelle che mi interessano meno, da salmone che risale la corrente quale sono).
La danza è anche professione, a qualsiasi livello della filiera produttiva, è ciò che facciamo per vivere, per sentirci parte di quel tessuto sociale in cui possiamo intessere le lucenti fibre della bellezza, dell’aggregazione, dell’arte e della cultura, ma diciamola tutta: per essere parte della società bisogna anche avere strumenti contrattuali, occupare un posto nell’apparato fiscale.

Non riuscirò mai davvero a comprendere questo attaccamento agli Enti di Promozione Sportiva che alla danza hanno portato solo mediocrità, non perché l’ambiente sportivo sia mediocre, ci mancherebbe, ma perché metterci dentro la danza è una forzatura in termini. Ci siamo fatti mettere in ginocchio da un ambito che non ci compete solo per non pagare le tasse, ma questo privilegio costa caro, signori e signore, carissimo. Costa il riconoscimento della nostra professione che tanto reclamiamo.

La triste situazione attuale è che il sistema dell’insegnamento della danza in questo paese si sostiene sull’associazionismo sportivo dilettantistico e uscirne in massa sarebbe uno di quei gesti importanti da fare che però, come in tutte le rivoluzioni, porterebbe a risultati eclatanti ma anche allo spianamento di molte realtà che non ce la farebbero a sopravvivere. Siamo in quello che i francesi chiamano “cul de sac”, in quella situazione in cui sembra più conveniente rimanere intrappolati sul fondo del sacco senza potersi muovere piuttosto che agire per cambiare le cose.

Oggi ho detto ad una cara amica che sono stremata delle mie lotte nell’ambito della danza, da quelle che riguardano l’etica alle questioni contrattuali e lavorative, le ho confessato di sentirmi  come Don Chisciotte contro i mulini a vento e vorrei gettare la spugna. Lei mi ha risposto che si sente nello stesso modo, che è certa che le cose non cambieranno mai, l’unica cosa che accadrà è che chi porta avanti le battaglie verrà abbandonato e gli si farà terra bruciata attorno. Abbiamo entrambe convenuto, alla fine, che se siamo ancora qui a batterci evidentemente non siamo disposte a praticare la nostra amata arte in questo mondo distopico e deformato e che forse le nostre anime reclamano altro.

Come insegnante mi sento molto responsabile nei confronti dei miei studenti, mi dispiace di non poter passare il testimone in una condizione almeno pari a quella che avevo trovato io nella seconda metà degli anni ’90, durante il colpo di coda degli anni d’oro della danza in Italia, quando le lezioni quotidiane e gratuite per i professionisti, aperte solo a possessori di libretto E.N.P.A.L.S. e sostenute dal Ministero, erano tenute da maestri internazionali e frequentate da bravissimi ballerini. Alla sera molti di noi erano impegnati sulle scene dei teatri cittadini e poi ci incontravamo in giro nel dopo-spettacolo.
A ripensarci oggi mi sembra di aver vissuto un altro, bellissimo mondo.

All’epoca c’era ancora un’etica professionale, si dava importanza alle questioni contrattuali, si aveva una disoccupazione perché avevamo contratti di assunzione e la partita Iva era una cosa da imprenditori, non da gente che fa un lavoro subordinato travestito da autonomo solo perché nessuno vuole assumersene i costi. Alla luce della mia esperienza nei progetti formativi professionali posso dire che il tasso di abbandono è molto alto, gran parte degli studenti “diplomati” (uso questo vocabolo tra virgolette non per sminuire il valore di questi attestati, ma perché a livello legale non c’è riconoscimento, se non – a volte- quello del Coni) lascia la danza o va subito a insegnare, senza neanche provare a fare audizioni. C’è molto sconforto, disillusione. Solo una piccola parte ha le risorse (caratteriali, tecniche ed economiche) per andare all’estero a cercare fortuna ma lasciare il proprio paese dovrebbe essere una scelta e non un obbligo.

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1 commenti

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KATIA TROMBONI 29 Giugno 2023 - 17:04

buongiorno, mi chiamo Katia Tromboni e sono la responsabile Qualità e Accreditamento dell’Agenzia Formativa Modern Dance Academy, approdata a questa scelta per la richiesta di riconoscimento da parte di un notevole numero di insegnanti Italiani, anche di nome che al momento di farsi riconoscere hanno voltato le spalle e preferito rimanere nella zona confort.
Mi piacere raccontarle la mia storia, perché dal 1998 continuo a lottare in maniera pionieristica nel settore danza, penso sia un po colpa degli insegnamenti della mia insegnante Sara Acquarone.
Nel ringraziarla per l’attenzione e nella speranza di essere da lei ascoltata
porgo i miei più cordiali saluti
Katia Tromboni
cell.347 22 23 727

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