La danza e(’) uno sport

di Elio Zingarelli
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La questione che vogliamo trattare è al centro di una riflessione incombente nella modernità per lo sviluppo delle tecnologie che sono alla base di una costante ricerca del superamento dei limiti, di cui ne è un sintomo la diffusione degli sport estremi nell’ultimo trentennio.

Decine di pirouettes, salti di sorprendente elevazione sono più frequentemente i brandelli di memoria che ciascun spettatore conserva dello spettacolo visto. Ciò vuol dire che la tecnica incide più dell’emozione, quest’ultima spesso più debole rispetto alla prima o del tutto assente. Sentiamo ripetere che la tecnica “non è fine a sé stessa ma è un mezzo per raccontare ed emozionare”.

Nel contempo proliferano quotidianamente nuovi concorsi di danza che si configurano più come eventi agonistici che artistici. L’abuso delle competizioni rischia di portare la danza lontana dalla sua essenza nonostante una competitività caratterizzi il suo ambiente, a partire dalla formazione. Eppure numerosi e diversi sono gli elementi che accomunano uno sportivo a un danzatore: il rigidissimo e costante training fisico che stimola e sfinisce, lo sforzo, l’abilità, l’agilità e la forza per eccellere, la cura del corpo per prevenire lesioni e fratture. Ma anche un pianista cura il proprio corpo, esercita i muscoli dell’avambraccio, i polsi, le mani e le dita per una maggior velocità d’esecuzione. Eppure raramente udiamo qualcuno annoverare la musica tra gli sport. In tutti questi casi c’è un atteggiamento comune, ovvero l’estremo. È una disposizione, un’attitudine personale che costringe a misurare le proprie forze andando oltre le proprie possibilità, anche per la volontà di vivere la realtà in modo differente e forse conoscerla in modo diverso da come ci appare. Dunque questo ci stimola a migliorare costantemente le nostre prestazioni.

Un’altra questione è lo sport nella danza o rappresentato dalla danza. A partire da Jeux (1913), creazione per i Ballets Russes con la musica di Claude Debussy e la coreografia Vaslav Nijinsky, ove la ricerca di una pallina da tennis diventa il pretesto per un gioco amoroso che il giovane tennista tiene insieme a due ragazze, fino a First Love (2018) di Marco D’agostin che sulla musica e le parole della canzone omonima cantata da Adele che apre il lavoro rievoca attraverso la danza il suo primo amore, ovvero lo sci di fondo. Un’operazione opposta a quella operata da bambino quando sciatore ma amante della danza, non conoscendo alcun movimento si dilettava a replicare quelli dello sci nel salotto e nella camera della sua casa. Racchette da tennis e scii trasformano i corpi e il loro movimento anche quanto sono evocati e non realmente utilizzati.

Questi lavori potrebbero suggerire una parentela strettissima tra sport e danza eppure vi è una grande differenza tra i loro gesti. Il gesto sportivo è fatto per essere misurato, quantificato, per raggiungere il miglior cronometro mentre il secondo è motivo e strumento di una ricerca poetica, intellettuale e solitamente ha un fine espressivo. Molti sport presentano una predominante dimensione coreografica ma il fine non è quello della danza, che non per forza deve averne uno. Forse potrebbe risultare interessante il solo tentativo di fare emergere il gesto sportivo, solamente efficace, in una dimensione coreografica che spesso si realizza su palcoscenici, oggi simili a vetrine per tecnicismi e virtuosismi di esseri performanti. Ma queste performances, nella danza, non dovrebbero mai essere scisse dalla sensibilità dei loro autori, l’unica componente attraverso cui l’arte può condividere nel proprio ambiente quello che motiva il gesto sportivo.

Foto: Luca Del Pia

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