L’infinito lockdown della cultura

di Giada Feraudo
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È arrivato l’autunno, e con esso è parso chiaro anche ai più inguaribili ottimisti che nulla è cambiato rispetto allo scorso inverno. Ci siamo dentro, di nuovo, fino al collo e oltre. Dopo un’estate che purtroppo pochi (soprattutto nel settore cultura e spettacolo) si sono goduti si prospetta un altro lungo e duro inverno, che non tutti supereranno. Non è unicamente un riferimento alla salute sociale ed individuale e alla piaga del virus che ci trasciniamo dietro ormai da mesi, ma soprattutto alla sopravvivenza di una larga parte della società e delle attività che fino a marzo esistevano e che improvvisamente sono quasi state cancellate, messe in ginocchio, umiliate e straziate non solo dal flagello del Covid-19 ma anche da una dissennata quanto insensata amministrazione che, forse per mancanza di conoscenza, forse per incuria, ha fatto e continua a fare di tutta l’erba un fascio.

Tralasciando le annose polemiche “discoteche sì ma eventi e teatri no”, più o meno sostenibili ed argomentabili, il punto è questo: il settore della cultura e dello spettacolo dà (o meglio, dava) il pane quotidiano a centinaia di migliaia di persone. Ecco, se già prima le sorti della maggior parte di questi lavoratori, precari per definizione e a cui si richiedeva di adattarsi alle condizioni più assurde, non ultime quelle economiche, erano disastrose, adesso semplicemente non esistono. Cancellate con un colpo di spugna, tutti a casa perché le nuove regole non permettono più tali tipi di attività.

Il problema è che, come sempre, le cose andrebbero valutate non dico caso per caso, ma almeno categoria per categoria. Nelle ultime settimane altre manifestazioni annullate, spettacoli cancellati, eventi vietati, nonostante il flebile barlume di speranza che si era prospettato, anche quando il margine per il rispetto delle norme di sicurezza (ben vengano, ci mancherebbe!) ci sarebbe. Come può sopravvivere, ad esempio, un grande teatro, che avrebbe lo spazio per ospitare più di 200 spettatori ma a cui questo non è concesso? Semplice: non sopravvive. Lo sbigliettamento non consente nemmeno di pagare la metà di coloro che sono necessari per lo svolgimento dello spettacolo, senza contare allestimenti e tutti gli annessi e connessi. Quindi, signori, chiudiamo baracca e burattini, il sipario resta calato e non se ne parla più. Forse faremo tutto stando comodamente seduti sul divano di casa, collegati al famoso Netflix della cultura tanto sbandierato da Franceschini, di cui peraltro nemmeno il ministro stesso ha più parlato.

Noi però sulla nostra cultura ci campiamo, ci abbiamo sempre campato, e sarebbe bene rifletterci: se un paese come l’Italia non riesce a vivere, almeno in parte, di cultura chi mai lo potrà fare? Un altro punto a cui pensare è il seguente: ci stiamo perdendo una generazione di cultura, perché le scelte di adesso avranno conseguenze per i prossimi decenni e orienteranno la formazione dei giovani e delle generazioni future. Lungi dal conservatorismo, per carità, ma una generazione a cui manca tutta una parte di bagaglio culturale non la trasmetterà a quelle successive, e questo in parole povere significa perderla. Per sempre.

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