Lia Courrier: “La sciatteria è una cosa che non ci si può permettere neanche quando si studia, non in una disciplina come il balletto”

di Lia Courrier
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È risaputo che una delle tante regole dell’etichetta del ballerino perfetto è attenersi ad un rigido dress code alla lezione di danza. Quanto più sono sfarzosi e barocchi i costumi di scena del repertorio classico, con tanto di acconciature, gioielli, piume, sbrilluccihii e incrostazioni di Swarovski in ogni dove, tanto più minimale è l’abbigliamento da tenere nel momento di studio.

Oggi le case di abbigliamento per la danza creano linee fantasiose, eleganti e anche un po’ seducenti per le donne, con giochi di trasparenze e stampe floreali, scollature da capogiro che lasciano scoperta la schiena, ma nell’ortodossia tutto questo non è contemplato. Per i ragazzi calzamaglia e maglietta aderente, di solito chiaro sopra e scuro sotto, scarpe in tinta con la calza. Per le ragazze leotard e gonnellino, solitamente in una tinta sobria, sia essa scura o chiara, calze rosa e scarpe in tinta.

Devo dire che i miei allievi sono abbastanza ligi nel rispettare questa regola, fatta eccezione per i mesi più freddi nei quali a volte chiudo un occhio (e pure quell’altro) lasciando loro tenere una tuta addosso per coprirsi, ma questo solo nelle giornate più gelide, altrimenti non riesco a vedere il corpo, né dare correzioni. Un elemento, però, accompagnata sempre la mia vita con la danza, una costante presenza in sala a creare continuità dai giorni in cui ero allieva a oggi che sono insegnante, un dettaglio genuinamente orripilante che inesorabilmente ci fa scivolare dai fasti della corte di Re Sole ai bassifondi della Parigi pre-rivoluzionaria: la calza smagliata.

Ai miei tempi forse eravamo avvantaggiate dal disporre di calze che avevano la consistenza dei pantaloni da lavoro degli operai della Breda, totalmente opache, utilissime in inverno e insopportabili d’estate, sovente corredate da quella riga dietro (ricordo degli anni ‘30) che faceva sembrare la gamba un insaccato pronto per la stagionatura. Ebbene questo tipo di calza per danza era praticamente eterna, devo averne qualche paio ancora da qualche parte e non dubito che sopravviveranno intatte alla mia intera generazione. Di solito le cambiavo perché dopo mille lavaggi assumevano una nuance tra il grigio e il blu, anche a chiazze, oppure perché a forza di usarle il tessuto si lasciava andare in molli pieghe sulle ginocchia e sulle caviglie, facendo sembrare le gambe come le zampe di un elefante dimagrito.

Eppure riuscivo a smagliarle lo stesso, perché avevo l’abitudine di tagliare il fondo del piede per potermi facilmente medicare i piedi dopo aver tolto le scarpe da punta (quelle di oggi sono già predisposte per questo) e quel gesto rappresentava l’inizio della fine, la strada diretta tra la confezione e la spazzatura. Mettevo dello smalto trasparente per unghie attorno alla parte recisa, ma a poco serviva: un codice a barre di smagliature risaliva lungo la caviglia ( e sempre di più ad ogni grand plié) dopo poche settimane di utilizzo quotidiano, ma io le usavo lo stesso facendo finta di niente.

Le calze in vendita oggi sono bellissime: sottili, con la giusta trasparenza, elastiche, aderiscono perfettamente alla gamba quasi ridisegnandola ed evidenziandone la tonicità. Quelle che indossavo io facevano le gambe di gesso e non si vedeva un muscolo neanche a pregare.

Come punto dolente, ahimè, bisogna dire che questi nuovi materiali si smagliano con molta facilità.

Spesso le mie allieve devono indossarle dopo un’altra lezione in cui hanno sudato, così nella foga di infilarle e tirarle su velocemente nei concitati cambi di ora da una classe all’altra, tirano qualche filo con le unghie e via, le calze sono da buttare. Ho chiesto loro perché non portarle già sotto agli abiti con cui fanno la lezione precedente, ma hanno fatto notare che, data la quantità di movimenti sulle ginocchia, sarebbe pure peggio e si danneggerebbero comunque.

Il risultato finale è che in ogni classe c’è sempre qualcuno che sembra abbia litigato con una tigre.

A volte si tratta solo di qualche linea sottile che si distende lungo la gamba, calandosi dal gonnellino giù fino al bordo della scarpetta, altre volte si tratta di grossi buchi da cui si irradiano autostrade di pelle scoperta verso l’alto e verso il basso. Anche in questi casi mi tocca chiudere un occhio, ma il mio “inner Jean Baptiste De Lully” soffre dolorosamente alla vista di quell’obbrobrio che offende ogni senso estetico, parbleau!

Decido quindi di spostare la mia attenzione sulla parte alta del corpo, braccia e testa, dal momento che lì c’è sempre un gran lavoro da fare, con la speranza di non vedere ciuffi ribelli e chignon a forma di ananas perché a quel punto proprio il mio sguardo non saprebbe più dove posarsi.

Adesso che mi trovo in questo ruolo capisco il motivo delle occhiatacce che la mia maestra mi lanciava quando scorgeva segni di sciatteria nel mio abbigliamento. Una volta mi disse:

“Courrier, ma come si presenta a lezione? Domani ci vestiamo insieme”.

Detto senza disprezzo ma con l’ironia e l’amorevolezza che contraddistinguono questa donna dall’eleganza innata, accompagnando quelle parole con un sorrisetto sardonico che lasciava immaginare i suoi pensieri in quel momento.

Aveva ragione.

La sciatteria è una cosa che non ci si può permettere neanche quando si studia, non in una disciplina come il balletto. Essere impeccabili non è una richiesta che riguarda solo la tecnica (fronte su cui ognuno fa del proprio meglio) ma proprio l’atteggiamento, la cura che bisogna rivolgere ad ogni dettaglio, l’attenzione verso il maestro e le sue indicazioni, la focalizzazione assoluta in ogni gesto e in ogni parte del corpo, così anche una calza smagliata in modo evidente può incrinare questa porcellana, distogliere l’attenzione, creare una breccia verso quella ribellione selvaggia che, seppure sia un impeto che amo e che mi appartiene, è inappropriato per disciplina che insegno.

Se potessi tornare indietro nel tempo, a quei giorni in cui ero allieva, investirei un’ora del mio tempo per andare a comprare un paio di calze nuove, anche se stremata alla fine della giornata di lezioni, solo per rispetto alla classe, alla maestra e a me stessa, per potermi sentire sempre perfettamente allineata con quel tipo di indagine e con quella qualità nella presenza.

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