L’emergenza sanitaria che stiamo vivendo in questo momento è un evento che non ha precedenti nella storia recente del nostro paese. È come se qualcuno ci avesse tolto la sedia da sotto il sedere un attimo prima di adagiarvisi sopra: all’improvviso tutte le certezze, tutti i programmi, tutti gli impegni, persino le relazioni tra le persone, sono state investite da un’onda anomala, e adesso i pezzi rotti delle nostre vite galleggiano su questo mare, alla deriva, mentre a noi non resta che osservare questo disfacimento, in attesa che il rischio di contagio cominci a diminuire.
Stiamo navigando a vista. La scienza studia il virus e ogni giorno scopre nuove sue caratteristiche. La politica si è ritrovata a gestire un popolo, che di certo non ha una buona relazione con le regole, verso una stretta quarantena. Gli economisti dovranno interpretare la pesante recessione che seguirà a questo periodo di sospensione delle attività. Le aziende hanno il fiato sospeso.
Non siamo gli unici ad aver scelto la strada della quarantena come modello di prevenzione, a quanto pare l’unico che funziona davvero: anche in molti paesi asiatici, ancor prima che qui scoppiasse il boom di casi, questa era la misura presa in atto da settimane. Nonostante i tanti dubbi, le paure risvegliate, il senso di incertezza e l’isolamento a cui siamo costretti, credo che la cosa più importante in questo frangente sia salvaguardare la nostra salute e quella degli altri, fare in modo che questa emergenza passi il più presto possibile, con la speranza di riattivare presto almeno la dinamo sociale.
All’inizio di questa storia, pensavo che la sospensione delle attività fosse un provvedimento sovradimensionato per quella che descrivevano come una semplice influenza, ma con il passare delle settimane mi sono resa conto che questa scelta era l’unica possibile per permettere alla popolazione più vulnerabile la sopravvivenza e al sistema sanitario nazionale di non collassare.
Accettazione.
In questo panorama da film post apocalittico, ovviamente, c’è chi paga un prezzo più alto, categorie lavorative già vulnerabili prima del contagio. Tra queste anche i lavoratori dello spettacolo dal vivo e gli insegnanti di danza. La sospensione delle attività ha una tale ricaduta sulle nostre esistenze, che non mi basterebbero dieci numeri di SetteOtto per elencarle e argomentarle tutte, un disagio non solo dal punto di vista economico, che già di per sé basterebbe, ma anche per il senso di comunità tutto da ricostruire, il programma di studi che non potrà essere concluso, tutti i mesi di lavoro con gli allievi che sono stati cancellati dall’inattività forzata, e molto altro. Tutti noi siamo chiamati a dare il nostro contributo affinché questa emergenza cessi, ovviamente, ma sei settimane di inattività (almeno questo è il tempo di sospensione previsto mentre scrivo), sono certamente troppe per chi si trovava già in condizione di precarietà, senza compensi adeguati, ancor prima dell’emergenza.
Ci tengo a dire che tutto ciò che scriverò non vuole essere un giudizio nei confronti di qualcuno, meno che mai verso i datori di lavoro, perché sono consapevole che siamo tutti sulla stessa barca e che ognuno in questo frangente sta solo cercando di salvare il salvabile. La situazione in cui gli insegnanti di danza si trovano è quella di lavoratori ai margini, poiché la maggior parte di noi ha un contratto con ASD, mentre altri sono detentori di partita IVA, quindi in entrambi i casi senza andare a lavorare nessuna paga. Già da tempo, quindi, attraverso la rete si è sollevato un grido di dolore da parte dell’intera categoria, che si lamenta e solleva pretese di sostegni e aiuti economici da parte dello Stato.
A fronte di tanto ardore, vorrei ricordare che ad oggi, la stragrande maggioranza degli insegnanti di danza ha accolto con ottimismo il trattamento fiscale offertoci dal Coni, con il tetto massimo di 10mila euro annui. L’unica caratteristica che è stata subito capita è che su questo ammontare non sono applicate tasse, ma il perché questo tipo di contratto lo preveda, e cosa questo comporti per il lavoratore, pare una faccenda più complessa da comprendere. Questa tipologia di contratti, non mi stancherò mai di ripeterlo, è stata pensata per chi svolge questa occupazione come secondo lavoro, in qualità di dilettante, ed è scritto chiaramente che i compensi ricevuti attraverso questa occupazione non debbano essere la prima fonte di guadagno, cosa che sappiamo benissimo non essere, perché noi ci presentiamo come professionisti, non dilettanti, e svolgiamo l’attività di insegnante come primo lavoro. Quindi con questo, già molti di noi sono fuori dalle regole. Questo tipo di contratto, quindi, presuppone che il lavoratore versi già alla previdenza sociale attraverso la sua prima occupazione. Non entra in testa che se non paghi le tasse, sei un fantasma sociale che non ha diritti e tutele, che sia per malattia, infortunio, maternità, o per emergenze come questa che stiamo vivendo. Senza pagare le tasse, tanto per dire, non sosteniamo neanche il sistema sanitario nazionale, da cui però ci aspettiamo accoglienza quando ne abbiamo bisogno.
Chi è sottoposto a contratti con le ASD, insomma, ha ancora meno diritti di chi ha una partita Iva, che almeno le tasse le paga, a meno che non sia un evasore.
Tutti i noiosissimi discorsi che ho fatto più volte su queste pagine per spiegare il perché, ad esempio, l’iniziativa portata avanti da Aidaf rappresenta una delle proposte più interessanti che sono state portate avanti negli ultimi 20 anni, verte proprio in questa direzione: dare dignità e diritti alla figura professionale dell’insegnante di danza. Se questa fosse stata appoggiata dalla maggior parte degli oltre 17mila certi di danza in Italia, forse oggi avremmo qualcosa a cui appellarci per chiedere aiuto.
Onestamente non so come si possa pretendere che lo Stato debba occuparsi di noi adesso, solo perché siamo in emergenza, e invece sia andato bene finora il vivere ai margini, senza un contratto nazionale che sia congruente alla nostra occupazione che, badate bene, è da subordinato e non da autonomo, sotto il giogo degli Enti sportivi, che di danza non ne sanno nulla.
1 commenti
Gentile Lia
È vero, ha ragione. Ma è anche vero che il mercato di riferimento è sbagliato: c’è troppa offerta e prezzi troppo bassi per poter procedere con dei contratti “veri”…
Grazie per l’ascolto e complimenti per la sua sempre fluida scrittura