Lia Courrier: “Fai un lavoro che ami e non lavorerai un solo giorno nella tua vita”. Ne siamo proprio sicuri?

di Lia Courrier
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“Fai un lavoro che ami e non lavorerai un solo giorno nella tua vita”.

Cazzate.

Fai un lavoro che ami e non solo lavorerai ogni giorno, ma lo farai persino con un maggior investimento di energia, tempo e intenzione, per mantenere degli standard all’altezza dell’amore che hai per quello che fai, quasi sempre con paghe non adeguate alle competenze e alle ore effettive di impegno.

Non cambierei mai vita, beninteso, ma smettiamola con queste frasi da Baci Perugina perché l’unica cosa che so è che bisogna tutti farsi un gran mazzo ogni giorno.”

Questo è il post pubblicato qualche settimana fa sulla mia bacheca Facebook che, contrariamente ad ogni previsione, dal momento che il mio non è un profilo pubblico, ha raccolto moltissimi commenti e reazioni. Ebbene sì, mi autocito, ma è solo per usare questo post (emerso così per caso un venerdì mattina con una prepotenza e una lucidità tale che mi è venuto spontaneo metterlo per iscritto) come spunto per alcune riflessioni.

Molti commenti ricevuti si sono focalizzati sulla questione economica, che per me invece era solo un modo per dire che dietro ad ogni ora di insegnamento, c’è almeno un’altra ora di preparazione del contenuto di quella lezione più gli spostamenti, che in una città come Milano possono aggiungere facilmente anche due ore senza colpo ferire. Mi direte che le ore di spostamento non te le paga nessuno, certo, però se l’impegno nella struttura è per una sola lezione vuol dire che hai impegnata mezza giornata per ricevere una retribuzione per la sola ora e mezza in cui stai con gli allievi.
La questione che più mi lascia perplessa, però, è aver ricevuto commenti di chi proprio invece espressamente sente il proprio come un non-lavoro, come qualcosa che bisognerebbe accogliere al pari dell’unzione dello Spirito Santo che discende dall’alto. Cerco di accogliere questo punto di vista senza giudicare, nonostante sia per me incomprensibile per diversi motivi, che cercherò di riassumere in poche righe.

Avere alle spalle quasi 30 anni di ininterrotta formazione professionale (tolti gli altri 10 iniziali amatoriali) negli ambiti più disparati, con il corpo come il centro attorno a cui tutto il mio universo ruota, incidono molto sul sentire la mia come una professione desiderata, sudata, cercata, voluta. Non ho mai considerato la possibilità di raggiungere un punto d’arrivo nella mia preparazione, perché tutto muta costantemente e continuo ad adattarmi alle nuove domande e necessità, aggiungendo sempre nuovi saperi e nuove competenze. Non ho mai scelto scorciatoie come i seminari di un weekend (ho partecipato ad alcuni ma non li considero formativi) preferendo formazioni della durata di mesi o anni, l’unica modalità che ti consente di approfondire un argomento abbastanza da poter dire di averci capito qualcosa. Un investimento di denaro, energie, tempo, una sfida continua a cercare di far entrare nella propria testa e nel proprio cuore tonnellate di informazioni, esperienze, percezioni.
Senza contare gli anni sul campo a mettersi in gioco, a prendersi la responsabilità di ogni persona che hai davanti e che si aspetta da te di ricevere degli insegnamenti, a porre rimedio agli inevitabili errori, tutta esperienza che non puoi accumulare sui libri ma solo macinando ore di lezione ogni giorno come i piloti d’aereo accumulano le ore di volo.
Come potrei non considerarlo un lavoro?

Il secondo motivo per cui, nonostante benedica ogni giorno il cielo per avermi concesso di fare delle mie passioni le mie professioni, considero la ma occupazione un lavoro è perché desidero essere parte della società in cui vivo e per farlo ho bisogno di un mestiere come tutti gli altri, di dare il mio contributo in modo riconosciuto, altrimenti dal mio punto di vista sarebbe più onesto trovarmi un lavoro qualsiasi e insegnare yoga e danza come hobby. Chi fa questo come secondo lavoro, però, non può avere le stesse competenze di chi lo fa in modo esclusivo da decenni, questo deve essere chiaro a tutti. Considerare la mia occupazione un lavoro vuol dire dare dignità e valore al mio impegno, auspicare ad avere dei diritti da professionista e non da amatore.
Nulla contro gli amatori, ovviamente, ma la professione è un’altra cosa.

Purtroppo in una società come quella italiana, in cui la qualità e la meritocrazia non vanno molto di moda, in un clima di qualunquismo dilagante, in cui le persone non sono più abituate a riconoscere la qualità, perché nutrite da decenni da qualsiasi superficiale amenità venga somministrata al momento, si è diffuso questo sentimento romantico che vede la persona che fa un lavoro che gli piace come qualcuno che è stato baciato dalla fortuna e quindi non ha diritto a nulla poiché la vita l’ha già ripagato di tutto e anche di più. Non cadiamo in questo madornale errore, per favore, perché personalmente la vita non mi ha regalato proprio niente, e penso sia lo stesso per molti di voi, tutto quello che ho (e che so) me lo sono sudato duramente in anni e anni di meravigliosa fatica, appaganti scoperte, splendide crisi, catartiche rivoluzioni.

Non me ne abbia Confucio, a cui è attribuita la frase di apertura, ma non posso proprio sentirla mia, forse perché mi sento più orientata verso Lao Tzu.

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