William Forsythe alla Scala con Blake Works 5, ovvero il balletto proiettato nel futuro

di Nives Canetti
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Serata elettrizzante alla Scala il 10 maggio per la première che segna il ritorno di William Forsythe, assente da troppo tempo e riportato in teatro grazie alla direzione magistrale e competente di Manuel Legris.

Blake Works V, in sintesi, raccoglie tre balletti sulla musica ipnotica ed entusiasmante di James Blake: Prologue creato per i ballerini della Scala, The Barre Project nato in periodo di Covid attraverso la collaborazione su Zoom con Tiler Peck di NYCB, e Blake Works I creato per l’Opera di Parigi nel 2016 su sette canzoni dell’album “The Colour in Anything” di James Blake.

Ciò che più mi ha impressionato di questo lavoro di Forsythe, a parte la meraviglia formale di tutto lo spettacolo, è la sua capacità di farsi capire sia nella coreografia che in quello che afferma: dimostra un’intelligenza emotiva verso il pubblico e verso i ballerini che lo distingue da quei coreografi le cui esplorazioni, per quanto apprezzabili, difficilmente vengono comprese appieno da un pubblico normale.  Essere così semplici nel rappresentare la complessità della propria visione sull’evoluzione del balletto classico è di pochi, anzi pochissimi.

Un esempio concreto: gli ensemble di Forsythe oltre ad essere entusiasmanti sono estremamente complessi nella loro struttura ma talmente armonici che l’occhio non si perde a seguire i movimenti diversi dei singoli e capta semplicemente la logica armonica del gruppo. Difficilissimo da realizzare.

Per questo, a mio parere, Forsythe resta dopo Balanchine il più grande propulsore del balletto verso la modernità, di altissimo livello e fruibile per tutti. Anche se ha due anime, quella più “semplice” e una più cerebrale legata all’improvvisazione e alla ricerca, Forsythe sa capire perfettamente cosa proporre al pubblico e ai ballerini che si trova davanti, portandoli fino al punto di spingersi a spostare i limiti sempre un po’ più in là per far “evolvere le regole del balletto classico attraverso le eccezioni della coreografia”.

È il segreto di saper proporre un cambiamento creando consenso. E non è da tutti.

Ruth Bader Ginsburg diceva: “Fight for the things that you care about, but do it in a way that will lead others to join you” ovvero “combatti per le cose in cui credi ma fallo in modo tale da portare gli altri a unirsi a te” e in un certo senso credo che questo funzioni anche per l’evoluzione nell’arte.

Detto ciò, il corpo di ballo scaligero ha reagito in modo molto brillante e preciso alla spinta innovativa del coreografo e al suo stile unico con tutti i colori delle variazioni di ritmo, delle sospensioni e delle accelerazioni, dell’estremizzazione degli off balance, delle batterie e dei port de bras velocissimi nella sua coreografia.

E non parlo solo dei primi ballerini e dei solisti ma di tutto il corpo di ballo coinvolto nel progetto. Le coreografie di Forsythe non richiedono protagonisti bensì un ensemble di altissimo livello. In effetti la sua scelta dei cast è avvenuta prescindendo dalle gerarchie: il che ha permesso a tutti, solisti e elementi di fila, di mettersi in luce mostrando quanto sia alto il livello generale del corpo di ballo.  Mi è piaciuta la frase di Forsythe nell’intervista di Francesca Pedroni su Danza & Danza n.310 in cui dice di essere al servizio dei danzatori come in passato lo furono Balanchine e Petipa.

Difficile citare tutti gli interpreti perché sono stati tutti molto bravi, quindi cito qui quelli che a livello stilistico ho amato di più: Domenico Di Cristo e Andrea Risso, che sono conferme continue, Navrin Turnbull, Maria Celeste Losa e Gioacchino Starace in un cha cha travolgente, Giulia Lunardi, Benedetta Montefiore, Linda Giubelli, Alessandra Vassallo. E ancora, Edward Cooper, Rinaldo Venuti, Said Ramos Ponce e Francesco Mascia. Camilla Cerulli, irrefrenabile argento vivo. Non posso non ricordare Claudio Coviello, che conquista il palco ogni volta che appare interpretando perfettamente i canoni dello stile di Forsythe, e Alice Mariani con Christian Fagetti in un passo a due struggente e intenso. Seducenti Nicoletta Manni e Martina Arduino. E tutti gli altri, bravi davvero.

Molti i richiami di momenti classici durante Blake Works I, Apollo, Serenade, il Lago dei cigni a ribadire un’impronta fondamentale delle radici da cui il lavoro di Forsythe discende.

Dal punto di vista mondano, una prima come quelle di una volta. Dal palco vedevo in platea Luciana Savignano, Amedeo Amodio, Eleonora Abbagnato con Cipriani al seguito, meravigliosa Anna Maria Prina, Marinella Guatterini a fare da padrona di casa, Guzzo Vaccarino e il gotha dei critici internazionali schierati perché una prima mondiale di Forsythe non si perde. Il che proietta il ballo della Scala verso una dimensione internazionale che un po’ mancava e che la gestione di Legris sta coltivando in modo eccelso.

Da citare ovviamente il team di Forsythe, dagli assistenti coreografi Jodie Gates, Noah Gelber, Stefanie Arndt e Ayman Harper alle splendide luci di Tanja Rühl sui disegni di Brandon Stirling Baker e ai costumi di Dorothee Merg. Ma non certo da meno i maîtres scaligeri Laura Contardi, Massimo Murru, Lara Montanaro e Antonino Sutera, il cui ruolo quotidiano di tramite tra coreografo e ballerini è fondamentale.

Fino al 30 maggio alla Scala, da non perdere.

Ph. Teatro alla Scala / Brescia – Amisano

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