Semplicemente “scialla”: Federico D’Ortenzi, Demi Soloist del Philadelphia Ballet

di Elio Zingarelli
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“Scialla”, avrà pensato Federico D’Ortenzi nato a Roma. Il suo saluto invalida qualsiasi rigidità iniziale anzi, “dimmi di te”. È lui a chiedermelo. Così inizio io a raccontare. Si coglie subito la disponibilità non soltanto al dialogo ma all’incontro che si protrae per ore, perchè il piacere di conversare in lingua d’origine è tale che si finisce col dire più del previsto. Il danzatore si pone con disinvoltura, procede con disabitudine ma senza troppi fronzoli. La sua esperienza è accomunabile a quella di tanti altri ballerini e ballerine che si muovono per trovar-“si”, perchè il primo si, a volte, non è abbastanza per accomodarsi soddisfatti a pieno di se stessi. Federico D’Ortenzi rallenta quando parla dei suoi affetti più cari, esita quando gli chiedo della recente nomina che ricorda senza impressionare né se stesso né chi lo ascolta perché, forse, lungamente attesa, ma senza accanimento, o dimessamente accolta insieme all’incremento economico. Finalmente, c’è il riconoscimento di un’utilità materiale della danza che ai più risulterà sconcio; c’è una grande assenza nelle sue parole, la bellezza, che ai più sembrerà grave; c’è un’obiettività che ai più suonerà irreale. Insomma, nelle sue risposte si scorge una semplicità pregna di serietà. Il senso della misura di ciò che sta facendo.

È recente la promozione a Demi Soloist del Philadelphia Ballet. Ci racconti quel momento?

Erano anni che aspettavo questa nomina perchè fin da subito dopo il mio arrivo a Philadelphia, sette anni fa, ho ballato ruoli principali. Con il Covid tutto si è fermato e quando sono rientrato dall’Italia, dopo più di un anno, il direttore Angel Corella, mi disse che dovevo ricominciare da capo. Nel contempo avevo, comunque, i miei ruoli. Quest’anno, fortunatamente e sfortunatamente, molti colleghi si sono infortunati e ho dovuto sostituirli danzando dei ruoli che non avevo mai studiato prima. É andata bene, ho ricevuto degli apprezzamenti dagli sponsor che hanno iniziato a dimostrare interesse, anche per le mie origini italiane. Poi, durante il tour a Washington, con Lo Schiaccianoci,  ho danzato in 16 recite e non in 5, come previsto. Dopo una performance de Il lago dei cigni, alla fine della mia esibizione nel Pas de trois, il direttore dietro le quinte mi ha comunicato la sua volontà di promuovermi a Demi Soloist, apprezzando molto il mio impegno e la pazienza di attendere. In questo settore ci sono delle preferenze e, talvolta, chi lavora meno viene premiato. Ero sorpreso per il calore dei miei colleghi, nonostante la competizione resti sempre molto alta, così come per i complimenti dei ballet masters, dei macchinisti, e di tutti coloro che mi hanno fatto le congratulazioni via social.

Qual è stato l’ultimo ruolo che hai interpretato? Come ti sei preparato? Ti sei focalizzato su qualche aspetto in particolare?

È stato Gurn in La Sylphide di August Bournonville. Un balletto non facile per le peculiarità tecniche ma abbiamo avuto dei bravissimi stager; Dinna Bjørn è stata una persone squisita, e di grande aiuto non soltanto per la giusta esecuzione dei passi ma soprattutto per l’interpretazione. Mi sono molto divertito. Etudes, invece, ho sempre desiderato ballarlo e ricordo di essere stato davvero entusiasta quando il direttore ce ne ha parlato. Una grande sfida, salti, giri e poi un adagio al centro del palcoscenico, che ho affrontato avvalendomi della preziosa guida di Thomas Lund.

Hai vissuto in tante città (Roma, Milano, New York, Parigi, Washington, Philadelphia). Il piacere di cambiare casa o, piuttosto, la speranza di trovare quella giusta?

Non lo so ma in questo momento mi godo il presente. Non voglio dimenticarmi di ciò che sto vivendo. Qui sto bene anche se mi piacerebbe tornare in Italia.

All’accademia del Teatro alla Scala di Milano eri in classe con alcuni allievi oggi principal dancers in altre compagnie (Jacopo Tissi, Angelo Greco, Cristiano Principato). Sei in contatto con loro?

Si sono in contatto e aggiungerei anche Mattia Semperboni e Filippo Valmorbida. Per la nomina ho ricevuto i loro complimenti. Non abbiamo un rapporto quotidiano ma attraverso i social ho possibilità di seguirli. Spesso i compleanni sono l’occasione per sentirci e aggiornarci sulle nostre vite.

Hai sostenuto che allievi si resta per tutta la vita. Allora, cosa cambia quando calchi il palcoscenico come professionista?

Secondo me si rimane sempre allievi. Non rinuncio mai alla lezione che si tiene ogni mattina perché è occasione per migliorare e imparare costantemente. In definitiva è anche una forma di rispetto nei confronti del direttore e dei ballet masters.

Dopo le divise, solitamente bianche e nere, che si indossano in accademia, quanto il costume sul palcoscenico o l’outfit che scegli per le prove condizionano il tuo modo di danzare? È qualcosa a cui badi?

Sinceramente no. Quando frequentavo l’Accademia del Teatro alla Scala non volevo essere uguale a tutti così, ogni tanto, indossavo una maglietta con le maniche più lunghe solo per il riscaldamento e puntualmente il direttore mi riprendeva. Anzi, se devo essere sincero sono stato anche sospeso tre volte. Ora finalmente posso indossare ciò che voglio.

È risaputo che i danzatori trascorrano gran parte del tempo davanti a uno specchio: ritieni che questo focus ampli o piuttosto limiti il tuo sguardo?

Lo specchio è, nello stesso tempo, il miglior amico e nemico del ballerino. Nel primo caso perchè sono un grande perfezionista e per cui mi è d’ausilio ma, ogni tanto, mi sconforta. Sul palcoscenico mi lascio andare maggiormente, intendo dire che sono meno autocritico perchè non ho la possibilità di guardarmi. Se in sala, a volte, dimentico la gioia di danzare, sul palcoscenico, invece, con la scenografia e l’orchestra dimentico tutto il resto.

Le pubblicità, i video musicali, i tik tok e i reel hanno condizionato il tuo rapporto con la danza?

All’inizio si, vedevo molti filmati e facevo anche numerosi video, alcuni dei quali poi li  pubblicavo. Dopo aver visto alcuni reactions di Angel Corella sotto i miei filmati li ho scritto e lui mi ha suggerito di fare l’audizione per il Philadelphia Ballet. Questo è il vero motivo per cui sono qui. Ultimamente pubblico sempre meno. Non so perché.

Se dovessi raccontare a uno statunitense com’è la danza in Italia cosa diresti? E viceversa?

Penso che qui la danza si stia evolvendo, anche in termini di pubblicità. Riconosco un’ignoranza nonostante la quale questo mestiere ti consente di vivere bene, parlo proprio economicamente, soprattutto se fai un confronto con la situazione in Europa ove sicuramente c’è una maggiore conoscenza e considerazione. Ci sono i pro e i contro ovunque. Devo, però, constatare che qui il pubblico è sempre più partecipe e caloroso. Sono abbastanza fiducioso.

Che effetto ti fa sentir parlare di danza a chi non l’ha mai studiata?

Ti direi che mi è capito di invitare a teatro persone che non erano mai andate e che poi davvero hanno apprezzato ed espresso la volontà di tornarci. L’ambiente è magico quindi con enorme piacere colgo l’entusiasmo del pubblico. Mi piacerebbe che venga riconosciuto maggiormente il lato artistico di quest’arte.

La più grande o grave fake new sulla danza?

A volte ti fanno credere che il talento e il duro lavoro siano sufficienti per conseguire dei risultati e avere carriera. Invece, devono concorrere anche altri fattori: ovvero, la fortuna di trovarti al posto giusto, nel momento giusto e con la persona giusta.

Hai mai avuto pudore di danzare?

Si, ricordo i topi nello Schiaccianoci, per esempio, ma anche altre parti un pò più frivole.

Cosa ti gratifica maggiormente della danza?

Mi gratifica essere un danzatore perché il tuo lavoro è il tuo corpo. Esprimi te stesso ballando. Prima non lo capivo più di tanto ma ora sto acquisendo una maggiore consapevolezza e credo sia un grande privilegio che gli altri comprendono, oltre alla rarità.

Cosa i danzatori potrebbero fare e non fanno, e viceversa?

Non essere troppo duri con se stessi emotivamente, dovrebbero sforzarsi di apprezzare quello che fanno. Generalmente credo che cambi molto da persona a persona. Per esempio alcuni fanno serata senza che questo influenzi minimamente la loro concentrazione e quindi prestazione del giorno seguente. A me capita ma cerco di evitare se devo danzare subito dopo. Come ballerino puoi fare ciò che vuoi se conosci il tuo corpo e i tuoi limiti.

Sempre più spesso sentiamo parlare di nazionalismi e integrità: come ti approcci al confronto?

Intravedo diversi limiti imposti all’arte e questo non fa piacere. Nonostante ciò, a  Philadelphia la compagnia sta crescendo molto, anche economicamente, e stiamo avendo più pubblico. È in costruzione un nuovo edificio che ospiterà numerose sale prove. Qui sono l’unico italiano e il primo della compagnia in cui più della metà dei ballerini sono statunitensi. Posso parlare in italiano solo con la nostra Direttrice d’Orchestra, Beatrice Jona Affron, che ha origini italiane e conosce la lingua. Per me è un grande piacere e anche un aiuto. Ogni tanto le chiedo di adattare i tempi musicali in italiano cosicché nessuno possa capire (ride).

Invece, riguardo l’alleanza?

Nel mio percorso ho sempre avuto degli amici e altri che erano più competitivi ma a me, sinceramente, non ha mai interessato. Se, invece, influisce sul mio lavoro pongo delle domande e cerco di chiarire. In compagnia, devo dire, che risulto molto simpatico, vengo molto apprezzato anche come persona. È una seconda famiglia, ci supportiamo molto di più rispetto a prima.

Solitamente ti esponi? Se si per cosa?

Se il problema si pone più volte allora intervengo. E ripeto, soprattutto se influisce sul mio lavoro.

In questo eccesso di creativi e di creazioni cosa ritieni sia la creatività?

La creatività è una cosa bella. Qui molti colleghi manifestano la loro in svariati modi: suonando uno strumento, per esempio, o dipingendo, come me. Prima i miei soggetti erano soprattutto ballerine ora non più. Comunque, è un altro modo per esprimere la propria arte.

Un altro eccesso è quello dei maestri: per te chi lo è, cosa vuol dire esserlo e come lo si diventa?

La figura del maestro è molto importante, io ho costantemente bisogno di qualcuno che mi segua attentamente. Spesso è colui che oltre le correzioni ti incoraggia, anche. È importante ascoltare tutto e avere la capacità di capire cosa è più utile per te stesso.

Cosa ti piace oltre la danza e cosa vorresti fare dopo questo tuo percorso artistico?

Direi l’insegnante, considerando la mia esperienza variegata. So quanto è stato difficile non soltanto tecnicamente ma soprattutto emotivamente e mentalmente. Quando non trovi lavori o non danzi abbastanza inizi a credere che il problema sia tu e ti demoralizzi. Per questo mi piacerebbe supportare gli allievi. Ho davvero conosciuto tanti ballerini con doti e abilità eccezionali ma non forti abbastanza per perseverare e alla fine hanno smesso. Ti direi anche il direttore, o il coreografo. Vorrei tanto fare un mio balletto ma per ora mi concentro sulla mia carriera da danzatore.

Domanda libera: c’è qualcosa che vorresti dire?

Si! Mi sento di ringraziare la mia famiglia, mia sorella, mia madre e Manuel che mi hanno davvero aiutato anche economicamente affinché potessi continuare a studiare. Devo tanto a loro. E poi, nonostante le difficoltà e i tanti no, vorrei incoraggiare tutti a perseguire, non gettare la spugna perchè prima o poi le opportunità arrivano. La vita è imprevedibile.

Invece, c’è qualcosa che ti manca e di cui avverti la necessità? Credi che la danza possa sopperire a questa mancanza?

Mi piacerebbe che la danza fosse maggiormente divulgata e poi vorrei tanto che la mia famiglia venisse qui per vedermi danzare. È una mancanza che avverto sempre di più. Spero che un giorno, magari il prossimo anno, possano venire.

Grazie Federico.

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