SOCIETÀ

La danza, "canzone di gioia e dolore"

Per danzare, dice Carla Fracci, “le qualità necessarie sono tante. Non basta soltanto il talento, è necessario affiancare alla grande vocazione, la tenacia, la determinazione, la disciplina, la costanza”.

Quando vediamo una ballerino librarsi etereo nell’aria in gran jeté come se volasse, piroettare senza fine, sollevare al cielo la sua compagna di pas de deux, e così facendo quasi contravvenire alle leggi della fisica, ci spieghiamo queste sue capacità come il frutto di uno sforzo titanico, fatto principalmente di sacrificio e forza di volontà. Parole come disciplina, costanza, determinazione, rinuncia sono effettivamente all’ordine del giorno per chi decide di intraprendere la carriera di danzatore. Ma è davvero necessario?

Voltaire diceva che la danza è annoverabile tra le arti perché essa è asservita a delle leggi, e queste sono inevitabilmente la leggerezza, la flessuosità, il controllo la forza necessarie per riprodurre col corpo (e con l’anima) i movimenti di quell’arte che chiamiamo balletto, crearne le figure. Sarebbe ingenuo, per chiunque abbia visto anche solo un frammento di un’esecuzione, pensare che ci si possa riuscire senza impegno. 

Non per questo, però, il ballerino deve accettare di rinunciare alla propria integrità, fisica e psicologica. A dirlo è, in un incontro sulla danza tenutosi di recente a Padova nell’ambito della rassegna Lasciateci sognare, il maître de ballet Michele Villanova, diplomato al Bolshoi, alle spalle una carriera da primo ballerino a La Scala, ora direttore artistico del progetto Giovani al centro (G.A.C.) di Milano.

Ci si forma ballerini molto presto, spiega il maestro, in un percorso che comincia con l’infanzia e arriva a maturazione alla fine dell’adolescenza, quando fisico e psiche sono in pieno sconvolgimento. Ecco quindi che fondamentale diviene la ricerca di un equilibrio che guidi la persona, prima ancora del suo corpo (“la macchina” come viene chiamata e vissuta dai danzatori). 

Racconta di ragazze che non vogliono entrare in scena perché non si sentono in armonia col proprio corpo, cresciuto e non più efebico come meglio sarebbe per una danzatrice, racconta di come un infortunio possa diventare cruciale, perché può costringere all’abbandono di una strada, la danza, che richiede una formazione lunghissima e per la quale si sono compiute rinunce importanti (l’allontanamento precoce dalla famiglia, per esempio). Racconta l’effetto distruttivo che può provocare il fallimento su chi ci ha investito davvero tutto, sulla danza, un'attività che il maestro paragona alla carta moschicida: attrae ed uccide, se non si fa attenzione. 

Da qui, per Villanova, la responsabilità degli insegnanti, che devono esercitare la loro autorevolezza senza forzature e soprattutto avendo sempre presente l’individualità di ciascuno: anche solo delle parole sbagliate possono essere fatali, e il desiderio fortissimo di coronare tanti sforzi, in un ambiente fortemente competitivo, può portare all'illusione di "scorciatoie" che poi si rivelano micidiali.

Non è un caso, per esempio, che siano ormai diversi anni che gli studiosi dei disturbi del comportamento alimentare ascrivono la danza tra le attività a maggior rischio: nel 2009 erano già 50 le ricerche scientifiche effettuate nel mondo del balletto ad essere state pubblicate a livello internazionale. Ne è emerso che il danzatore per superare i limiti imposti dal fisico plasma il proprio corpo secondo canoni precisi, e la strada più veloce per la fantomatica magrezza è spesso erroneamente identificata con l’astensione dal mangiare. A differenza di altre discipline sportive, l’allenamento del danzatore non è (almeno di regola) seguito da un’equipe medica, perciò ognuno fa secondo il proprio criterio, che può anche essere, appunto, sbagliato. 

Uno studio recente dell’università di Milano (Boselli e Canali, 2013), effettuato proprio nell’ambito del G.A.C. cui afferisce Villanova, ha mostrato, attraverso l’analisi delle abitudini alimentari degli allievi danzatori, come “nella maggior parte dei casi il regime alimentare seguito non sia conforme con il dispendio giornaliero” ed inoltre che “non è possibile stabilire un consumo medio del danzatore”. L’utilizzo delle risorse metaboliche è risultato essere strettamente soggettivo, e pertanto necessiterebbe di dieta calibrata da uno specialista, certamente non dell'improvvisazione.

Ecco quindi che si rende necessario sfatare dei cliché: il ballerino ha bisogno nutrirsi adeguatamente per conservare la condizione fisica ottimale e quindi ballare meglio, così come è ormai risaputo che i famosi dettami posturali (“sedere in dentro”, “costole chiuse” ecc.) sono deleteri per la salute a lungo termine dei danzatori: la forzatura di mantenere le costole “chiuse”, per esempio, può provocare dall’ipertensione al reflusso gastrico. 

La caduta del luogo comune vale anche, specifica Villanova, per la credenza che la danza "si opponga alle leggi della fisica": per quanto i movimenti del ballerino sembrino contraddirle, in realtà – come è naturale - è solo grazie al perfetto utilizzo di leve e gravità che si produce l’armonia del balletto, che deve assecondare la natura, non forzarla. Nulla di nuovo: alla natura non si comanda se non obbedendole, come ammoniva già Bacone.

Se la via privilegiata è quella della conoscenza del proprio fisico e dello sviluppo delle proprie capacità in vista della precisione e dell'armonia dei movimenti, perché allora alcuni metodi di insegnamento, specie nelle scuole più legate alla tradizione, ricorrono ancora (o fino a pochi anni fa) all’utilizzo del bastone? Alla richiesta di “soffrire in silenzio”? Come ogni grande verità, osserva il maestro Villanova citando questa massima, è l’utilizzo che se ne fa ad essere foriero di esiti positivi oppure negativi. Per esempio la bellezza della posizione a “pancia in dentro e petto in fuori”, oggi classica e nata nei primi del Novecento con  Agrippina Vaganova, la ballerina che sviluppò un famoso metodo di insegnamento derivato dalla scuola di Marius Petipa, è propria sia dal mondo militare che dal balletto. E così il tradizionale percorso formativo, che è il momento di riconsiderare in funzione degli allievi, e non solo del risultato finale. 

Ma c’è una certezza in queste riflessioni: la sofferenza non va tramandata, quasi fosse la colpa dei padri che necessita di ricadere sui figli. È forse venuto il momento, quindi, che il mondo del balletto ripensi a se stesso, sia nei mezzi che nel fine, proprio per conservarsi. Tradizioni che hanno retto un mondo a lungo possono essere un peso per il suo sviluppo. Quando parlerà all’uomo contemporaneo, che la esegue e che ne fruisce, così come si esprime attraverso la perfezione dei suoi capolavori del passato, allora si sarà guadagnata davvero l’eternità. Pur restando, forse, come diceva Martha Graham “una canzone di gioia e dolore”.

Valentina Berengo

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