Sabrina Brazzo: una danzatrice pop col tutù e le punte

di Francesco Borelli
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Sabrina Brazzo è persona bella. Ha gambe infinite che toccano il cielo. Linee lunghe che disegnano emozioni, braccia che parlano. Dietro questo corpo statuario votato alla danza e nato per fare questo e nient’altro che questo esiste, poi, un’anima pura. Una donna semplice e dolce, un’artista la cui vocazione è emozionare ed emozionarsi, migliorare ogni giorno e domandarsi: “Che cosa succederà adesso?”

Sei nata in un piccolo paesino della provincia di Venezia. Che cosa spinge una bambina a trasferirsi da una piccola realtà al Teatro alla Scala di Milano?

Sono nata ballerina. Da bimba danzavo ovunque ed era in qualche modo naturale che venissi, col tempo, indirizzata verso un’accademia professionale. Come tutti ho iniziato in una scuola privata e il mio maestro di allora, Alfredo Rainò, già primo ballerino dell’Opera di Roma, conscio delle mie doti, invitò i miei genitori a farmi studiare in maniera professionale. Allora vivevamo in Abruzzo. I miei erano albergatori e cambiavamo città in base a dove sceglievano di gestire gli alberghi. Ci trasferimmo nel Veneto e l’Accademia più vicina era la Scala. E così iniziai. Avevo dieci anni.

Che ricordi hai di Anna Maria Prina, l’allora direttrice della scuola di ballo?

La scuola, allora, non si pagava. Partimmo in trentatré e mi diplomai da sola. Sono sempre stata molto infantile, forse ingenua. E la Prina si comportò con me in maniera molto severa. E di questo gliene sarò grata tutta la vita. La sua durezza era finalizzata a provocare in me una reazione. A spronarmi. E ancora oggi, nei momenti di maggiore sconforto, penso a lei e a tutto ciò che mi ha dato. Le devo molto.

Perché secondo te molte persone pur stimandoti hanno spesso avuto un comportamento aggressivo nei tuoi confronti?

Sono tendenzialmente una persona molto dolce e tranquilla. Con delle grandi doti per danzare. A mio avviso, dalla Prina fino a Nureyev, han temuto che mi adagiassi su ciò che avevo. Di certo, il loro modo di fare mi ha reso ancora più forte. Nella vita e sulla scena in particolare. Le loro “cattiverie” sono state preziosi insegnamenti. A queste dò credito, le altre non le considero.

Ne hai subite tante di cattiverie?

Sì, come tutti credo, in qualsiasi lavoro. Penso che ognuno sia libero di fare ciò che desidera. Il proprio valore si dimostra lavorando tutti i giorni e sulla scena. Il resto non conta.

Ti sei diplomata da sola dopo essere partite in trentatré. Sei diventata prima ballerina. Hai raggiunto mille obiettivi.  Come ci si sente a essere una fra tante?

Non mi sono mai sentita arrivata. Piuttosto mi son sempre chiesta: “E adesso?”. Ogni obiettivo raggiunto mi ha sempre portato a interrogarmi sul futuro. A studiare di più. A mettermi alla sbarra ogni mattino con un rinnovato senso del dovere. Con umiltà. Pensando di ricominciare sempre tutto d’accapo.

Qual è stato il primo ruolo che hai interpretato al Teatro alla Scala?

Ho danzato “Don Chisciotte” con Roberto Bolle. Lavorai tantissimo il ruolo con una maestra dell’Operà di Parigi che con me fu severissima. Ricordo, in maniera nitida, che appena entrata in scena pensai che finalmente potevo dimostrare quanto avevo lavorato per interpretare quel balletto. Non mi sentii minimamente e in alcun modo arrivata. E ancora adesso quando realizzo qualcosa, penso che devo lavorare ancora e di più per fare meglio. Ritengo ci sia sempre da imparare.

Non credi che questa tua grande umiltà, sia, insieme alle indiscusse doti, ciò che ti ha resa diversa dalle altre? Ciò che rende un danzatore, un grande artista?

Artista per me è una parola gigantesca. Sono pochi che possono definirsi tali. Unici nel loro essere, e nella vita privata e sulla scena. In grado di attirare a sé chiunque, qualsiasi anima, qualunque cuore sensibile alla bellezza e alla grandezza dell’arte. Nel mio lavoro ancora non mi sento un’artista. Lo sono nella mia vita privata però.

Quali sono gli artisti grandi che hai incontrato nella tua carriera?

Nureyev in assoluto. Avevo diciassette anni. Mi scelse per interpretare uno dei cignetti. Carla Fracci, interprete unica e straordinaria. Silvie Guillem che mi ha aiutato tantissimo anche nella promozione di me danzatrice. Maurice Bejart col quale ho condiviso un meraviglioso periodo di prove a Lousanne per “La sagra della primavera” e che, ricordo, mi chiamava “la mia veneziana”. E poi Bolle con cui ho iniziato la carriera, la Terabust, la Ferri, Massimo Murru.

Quando a soli diciassette anni capita di essere scelte dal più grande danzatore del mondo per interpretare un ruolo in un grande balletto, come ci si sente? Si ha la consapevolezza di avere innanzi la danza nella sua essenza più pura?

Ancora oggi non mi capacito di come abbia potuto scegliermi. Non so cosa abbia visto in me rispetto alle altre. Davvero non lo so.

Ci racconti il momento in cui sei stata nominata prima ballerina?

Silvie Guillem cercava una danzatrice per interpretare la sua versione di Giselle. E scelse me. Lavorai su quel ruolo duramente e la stessa Guillem fu con me severissima. Il giorno del debutto più che felice ero preoccupatissima. Volevo fare bene, a tutti i costi. A fine spettacolo si presentò in scena Olivierì e con la Guillem accanto che mi asciugava le lacrime, mi nominò prima ballerina. Fu un’emozione unica.

Ti aspettavi la nomina a prima ballerina?

Erano anni che interpretavo tutti primi ruoli. E avevo perso le speranze. Mi ero concentrata su me stessa, sul migliorare tutti i giorni con un lavoro finalizzato a rendermi una danzatrice migliore. Quella sera mi sentii felice ma, allo stesso tempo, m’interrogai sul futuro. Sul grandissimo lavoro che mi attendeva.

La “Giselle” della Guillem da te interpretata ha cambiato il modo di portare in scena questo ruolo. Le linee si sono alzate, le gambe sono diventate più alte. Quanto Sabrina Brazzo ha contribuito ai cambiamenti che hanno portato la danza a essere come oggi è concepita?

Dopo il diploma in Scala, lavorai in Germania per un paio d’anni. E lì la danza aveva iniziato il suo percorso di cambiamento. Ritornata in Italia, ero una ballerina diversa; le gambe più alte, le linee più lunghe. Oggi i danzatori sono tutti così. Forse fin troppo. Gli uomini sono belli, ma meno forti. Le donne si fanno male facilmente. C’è meno consapevolezza di come tutto deve essere fatto.

Tra i ruoli da te interpretati, quale ti rappresenta meglio? A quale sei maggiormente legata?

Di certo “La Bella addormentata” nella versione di Nureyev. Per me ha sempre rappresentato una grande sfida. Tecnicamente è un balletto molto pesante e a livello interpretativo, il personaggio di Aurora vive un’evoluzione che offre ogni sera spunti differenti.

Ti sei definita una danzatrice differente dalle altre. A tratti più moderna e più aperta a ogni tipo di esperienza che la danza può offrire. Secondo te è giusto che esistano ancora certi snobismi da parte di chi si definisce un danzatore classico?

Il ballerino totalmente classico è in via di estinzione. Per esserlo bisogna fare un percorso difficilissimo che prevede uno studio infinito, l’interpretazione di determinati ruoli e un sacrificio che non ha pari. Oltre a un’infinita umiltà. Un ballerino di questo tipo può danzare qualunque cosa. Limitare il proprio campo d’azione è certamente un errore.

Tu hai la fortuna di avere un marito, Andrea Volpintesta, anch’egli danzatore. Quanto è stato importante avere lui al tuo fianco nel corso della vita?

Io mi son sempre sentita un brutto anatroccolo. Andrea, invece, ha sempre creduto in me, sostenendomi e rendendo prezioso tutto ciò che facevo. Ha regalato valore autentico a ogni mio sforzo e sacrificio. Ha reso tutto più bello.

Mi racconti il momento più bello della tua carriera?

Sicuramente la nomina a prima ballerina. Felice e al contempo preoccupata per ciò che mi aspettava.

E il più brutto?

Dovevo danzare Ratmansky alla Scala e il mio partner sarebbe dovuto essere Roberto Bolle. Mi feci male procurandomi uno strappo di 5 cm al polpaccio. Fu un momento difficilissimo; ho temuto seriamente di dover smettere di ballare. E aldilà del dolore fisico, ciò che mi dispiacque fu l’aver deluso il direttore Makhar Vaziev, che voleva fortemente danzassi nella sua nuova creazione. Fu ancora Andrea a incoraggiarmi. Chiamò il maestro Pierin e con lui ricominciai ad allenarmi. Il recupero fu durissimo ma dopo 6 mesi tutto tornò a posto. Fu un nuovo inizio per me.

Che cosa ti aspetta in futuro?

Voglio lavorare con i giovani. Con i ragazzi che hanno voglia di studiare, di migliorare tutti i giorni e regalare loro delle possibilità. Mi aspetto di vivere bene il quotidiano, ma piena di belle speranze per il futuro.

Cosa pensi di poter donare ai ragazzi che oggi lavorano con te?

La voglia di lavorare tutti i giorni. Come se ogni lezione, ogni spettacolo fosse l’ultimo. Senza risparmiarsi mai. Vorrei che imparassero a vivere in pieno la giornata e la professione. Pensando che si può sempre fare di più e che ogni occasione è una possibilità per migliorarsi e scoprire nuovi lati di sé.

Hai mai pensato di avere dei limiti come ballerina?

No. Possiamo fare tutto. E’ sufficiente crederci e conservare un candido stupore nei confronti della vita. Penso sempre a quando prima dell’entrata di Giselle mi trovavo dietro quella porticina. Pensavo a ciò che avrei dovuto fare, ma tutto era un’incognita. Ogni giorno, quando apro la porta di casa, mi sento nella stessa identica maniera.

L’intervista è terminata. Il richiamo dolcemente prepotente della lezione di danza è più forte e più importante. Sabrina torna a casa. Torna a quella sbarra con cui ha condiviso la maggior parte della sua vita. Una vita che è monito ed esempio per quei ragazzi che oggi, lavorano accanto a lei. E che la amano. Io vado via ripensando a quella donna bellissima che piange accanto alla Guillem dopo essere stata nominata prima ballerina. O meglio, a quella ragazza talentuosa che dietro la porticina della casa di Giselle si domanda: “Che cosa succederà adesso?”

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