André De La Roche: “Il Nureyev della danza moderna” e la sua vita bella

di Francesco Borelli
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Incontro Andrè De la Roche nel suo attico a Trastevere. Tutto in questa splendida casa parla di lui. Di una vita piena e straordinaria. Una vita colma d’incontri, persone, viaggi e tanta tantissima danza. Andrè si racconta perso in un mare di ricordi che ti riempiono il cuore e la mente. Perché, quando come lui si è vissuta una vita degna della più splendida pellicola cinematografica, è facile sentire di avere davanti un uomo speciale. Semplice certo, ma straordinario. Disponibile ma unico. E infinitamente grande.

Una vita meravigliosa trascorsa nel mondo della danza e dello spettacolo. Ci racconti la tua storia? 

Era il 1964 e già avevo un agente. A sette anni lavoravo in un telefilm degli Universal Studios nel ruolo di un piccolo principe. A otto anni entrai nel cast di “King and I”. Però è stato a undici anni che la danza, per caso, è entrata nella mia vita. Mio padre mi disse che se volevo fare l’attore dovevo migliorare la mia postura e m’invitò a fare danza. Ma dissi no. I miei genitori adottivi americani erano artisti di teatro e conducevano una vita che, con gli occhi di bambino qual ero, mi sembrava troppo dura. E dissi che non volevo. Poi in vista di un provino da attore in cui era necessario ballare cominciai a far lezione in una piccola scuola a Sunland in California. Tutti dicevano che ero portato ma io non ero per niente convinto. 

Quando hai capito invece che era la danza, la strada da percorrere e non la recitazione? 

I miei genitori adottivi erano italo americani. Un loro amico danzatore e insegnante, Thomas Molinaro, disse di avermi visto a lezione. Mi offrì una borsa di studio semestrale di 200 dollari per studiare in una grossa scuola di Hollywood Boulevard, l’American School of Dance. L’insegnante della scuola, nonché direttore, era Eugene Loring, già coreografo di Cyd Charisse, Audrey Hepburn e molti altri artisti della MGM. Qui ho iniziato ad apprezzare la danza. E a dodici anni vinsi una borsa di studio per bambini per il New York City Ballet. Però, non potei accettare, e con tutta la famiglia ci trasferimmo a Las Vegas per il lavoro di mio padre. 

Ci parli dei tuoi anni a Las Vegas? 

Mio padre adottivo, il cui cognome d’arte era De La Roche, lavorava come artista ma anche come production manager di alcuni grandi nomi come Shirley Maclaine. Qui entrai in un gruppo di giovanissimi che si chiamava “Third Generation Steps” diretto da Macio Anderson. All’inizio fu difficilissimo, studiavo tutti i giorni dopo scuola. Facemmo anche un’audizione per un musical di Gene Kelly. Dopo esserci esibiti come gruppo con un numero di dieci minuti, Gene Kelly venne da me e mi chiese quanti anni avessi. Gli risposi “quattordici”. Allora mi domandò se potevo fargli due pirouettes en dehors. Le feci. Non benissimo in realtà, perché lì a Las Vegas non studiavo più classico. 

Quando Gene Kelly si rivolse a te, avevi coscienza di chi avevi davanti? Di quale mostro sacro dello spettacolo mondiale ti stava parlando? 

Sapevo chi era, certo, ma a quell’età non hai piena consapevolezza delle cose. Ero un bimbo in un mondo di grandi. Dopo aver fatto le piroette mi disse che ero bravo, ma che dovevo studiare di più. E grazie a lui scattò in me qualcosa e cominciai a studiare danza con obiettivi più chiari. Intanto, dopo l’esperienza triennale a Las Vegas, io e la mia famiglia tornammo a vivere a Los Angeles. 

E qui a Los Angeles cosa successe? 

Cominciai a studiare moltissimo. Tornai nella mia vecchia scuola ed entrai nella classe “Ballet Due” una sorta di secondo corso. In più facevo lezioni private per un totale di tredici classi a settimana. D’estate addirittura diciassette. E rimasi lì dai quindici ai diciotto anni. 

E poi arrivarono “Dancin” e Bob Fosse. Ti ricordi il momento dell’audizione? 

Avevo ventidue anni. Dalla maggiore età lavoravo abbastanza assiduamente. Ma di certo, l’occasione della mia vita fu l’incontro con Fosse. La casa produttrice del musical era la Columbia Pictures. L’audizione la feci con la moglie di Bob Fosse che avevo già conosciuto quando avevo dodici anni alla festa di Natale in casa di Shirley Maclaine. Fu mia madre a indicarmi, bambino, Gwen Verdon, la moglie appunto di Fosse. Fu tutto molto casuale. Un amico mi diede i suoi biglietti per vedere “Dancin” in tournée a Los Angeles. M’innamorai dello spettacolo. Alla fine della rappresentazione andai a salutare alcuni amici che, scoprii, lavoravano nello show. E furono loro a dirmi dell’audizione che si sarebbe tenuta due giorni dopo. Seppi che l’audizione sarebbe stata tenuta da Gwen Verdon e andai, sinceramente, solo per la curiosità di rivederla dopo dieci anni. La selezione fu durissima, ma alla fine fui preso. Con me c’era anche Steve Lachance. 

Come fu lavorare con mostri sacri come Bob Fosse e Gwen Verdon? 

Con Bob lavorammo solo tre giorni e ricordo una persona gentile. Gwen invece era durissima. Tutto era calcolato nei minimi dettagli. Anche un semplice movimento delle dita era codificato. Fu una grande scuola che oggi apprezzo infinitamente. Lavorai nello spettacolo dal 1979. Facemmo tournée mondiali e nel frattempo ricevetti anche altre proposte come “Cats” a Londra, che rifiutai. Volevo andare a vivere a Parigi. E cosi feci. 

Quando sei venuto in Italia la prima volta?

La prima occasione fu il Festival di Spoleto nel 1984. M’invitò la grande Vittoria Ottolenghi la quale mi aveva visto ballare a Roma in “Dancin”. Feci solo la prima serata però. Mi feci male e fui ingessato. Negli anni successivi arrivarono “Joan lui” con Adriano Celentano e la prima “Serata d’onore” con Heather Parisi. Ma vivevo ancora a Parigi, dove facevo anche le prime importanti esperienze d’insegnamento presso il Paris Centre, e mi dedicavo alla mia prima coreografia. Per quasi quattro anni feci avanti e indietro tra Parigi e l’Italia. E fu nella bella Parigi che capitò un’altra cosa bellissima: Roland Petit mi offrì di essere partner di Zizi Jeanmaire in “Hollywood Paradise” insieme con Luigi Bonino. Nell’ottantotto poi, mentre facevo “Jeans 2” su Rai Tre, con Fabio Fazio, decisi di trasferirmi definitivamente a Roma. Intanto lavoravo anche in Spagna, dove mi dedicavo a grossi stage estivi. Furono anni rutilanti e bellissimi, in cui lavoravo tanto e mi sentivo pienamente felice. 

Una vita d’artista, divisa tra mille città ed esperienze di lavoro prestigiose. 

Vivevo un periodo della mia vita intensissimo. Avevo casa a Roma, Parigi, New York. Poi mi stabilii a Roma e la mia vita si radicò in Italia. Solo allora iniziai a conoscere il vostro paese, pur essendoci venuto mille volte. 

A proposito di Heather Parisi, rimangono indimenticati i vostri balletti. Che rapporto avevi con lei? 

Io e Heather avevamo in comune tantissime cose. Entrambi provenivamo dalla California e tutti e due eravamo figli d’arte, giacché le nostre madri erano danzatrici. Insieme funzionavamo benissimo, anche perché ballettisticamente molto simili. Ho sempre avuto per lei una grandissima stima. 

Ci racconti la tua lunga esperienza col Bagaglino? 

Col Bagaglino ho danzato dal 1993 al 2001. In realtà, all’inizio, mi proposi a Pingitore solo ed esclusivamente come coreografo. Fu lui a volermi anche come danzatore. Comunque, nelle prime sei edizioni condivisi le coreografie con Evelyn Hanack. Nelle ultime due fui ballerino ospite e curavo le coreografie dei soli mie pezzi. Inutile sottolineare come anche quelli furono anni bellissimi. 

Quali sono le doti che ti riconosci come danzatore? E quali gli aspetti su cui hai dovuto lavorare maggiormente. 

Fisicamente, per fortuna, ero molto dotato. Di certo aperture e salti sono stati da sempre la mia forza. E sin da piccolo, almeno cosi dicevano tutti, godevo di una certa presenza scenica. Ho lavorato molto invece sulla musicalità. 

Un aspetto che mi ha sempre colpito della tua persona è il totale rispetto che hai sempre dimostrato nei confronti del lavoro altrui. Mai una parola fuori posto. 

Io sono così nella vita. Dovrebbe essere la normalità. Sono cresciuto in un mondo dalla mentalità apertissima. In cui ciascuno ha il suo valore e le sue qualità. Ho vissuto sulla mia pelle la discriminazione. Ma per fortuna, come diceva mio padre, nell’arte non esiste pregiudizio. Siamo tutti uguali. Poi ho i miei gusti, preferisco una cosa piuttosto che un’altra e riconosco la qualità e il talento. Ma perché urlare o offendere le persone? Sono atteggiamenti che non mi appartengono. 

Quando è avvenuto il passaggio, seppure tu rimanga uno splendido danzatore, verso la coreografia? 

Ho sempre amato fare coreografia. Sin da giovanissimo. Ma la prima esperienza è stata a Parigi a ventisette anni. Si trattava del musical “Emilie Jolie” di Philippe Chantel. Ne sono arrivate, nel tempo, mille altre. Televisive e teatrali. Amo pensare a uno spettacolo, tanto quanto ballare. Sono due mondi paralleli e uno non esclude l’altro. 

La compianta Vittoria Ottolenghi ti ha definito Il “Nureyev della danza moderna”. Che peso ha avuto tale riconoscimento nella tua carriera?

È stato un onore immenso. Rudolf Nureyev è stato per me un esempio e un modello. Uno dei più grandi danzatori di tutti i tempi. Essere associato a lui mi ha riempito di orgoglio. Poi, ai miei tempi, ero uno dei pochi ballerini ad avere una fortissima tecnica classica coniugata col jazz e l’acrobatico. 

Quali, fra i tuoi innumerevoli ricordi, ti fanno sorridere e quali invece ti rattristano? 

Tantissimo tempo fa stavo lavorando come corpo di ballo in uno spettacolo di Juliete Prowse. Durante un cambio scena una delle mie scarpette rimase impigliata in uno dei sipari motorizzati. La mia gamba sinistra cominciò a salire insieme al sipario. Se non fossi riuscito a sganciarmi, mi sarei ritrovato a testa in giù. Fu un’esperienza davvero divertente. Viceversa ricordo con molta tristezza la mia partecipazione al primo Festival di Spoleto cui fui invitato. Come ho accennato prima mi feci male rompendomi i legamenti crociati del ginocchio sinistro. Finii il mio pezzo, ma il dolore era davvero immenso. 

La tua vita è stata un meraviglioso caleidoscopio di eventi, persone, viaggi, città. Guardando tutto dal di fuori, quali sensazioni provi? 

Provo una gioia infinita e mi sento orgoglioso di me. Non pensavo, durante il trascorrere degli anni che sarei riuscito a fare così tante cose. Credevo che a quaranta anni avrei smesso di ballare. Che mi sarei dedicato alla recitazione. Il mio primo amore. E invece sono arrivati l’insegnamento, la coreografia e continuo a ballare. E mi sento fortunato. Perché ho vissuto gli anni d’oro. Quelli in cui le possibilità erano tante e si poteva credere in un futuro felice. Oggi, ahimè, i ragazzi non possono dire altrettanto. 

Oggi sei impegnato su più fronti. Danzatore, coreografo e insegnante. Che cosa cerchi di trasmettere ai tuoi allievi e cosa consiglieresti ai ragazzi che vogliono intraprendere la tua stessa carriera? 

Vorrei che i ragazzi percepissero la passione e l’amore infinito che ancora oggi provo per quest’arte meravigliosa. E poi il rispetto. La danza va amata e mai sporcata con inutili storpiature. Che cosa consiglio? Di studiare tanto, di interessarsi a più stili possibili. Un artista completo ha tante possibilità in più. 

Sei stato un esempio per tantissimi ragazzi. Hai sentito, nel tempo, il peso di questa responsabilità?

Non ho mai pensato di costituire un esempio per i giovani danzatori. Io ballo e lo faccio con l’anima. Se questo passa ai ragazzi che mi prendono come guida positiva ben venga. È un onore e un privilegio. Un’altra delle tante cose meravigliose che la danza mi ha regalato.

Durante la nostra lunga chiacchierata il tempo è trascorso veloce. Troppo in fretta per riuscire a raccontare una vita. Ciò che colpisce di Andrè è l’infinita empatia, la corrispondenza di sensi che crea con chiunque abbia davanti. Forse è in questo talento, oltre la danza, che risiede la grandezza di qualcuno. Forse è nell’autenticità dei racconti e di un paio di occhi che ti guardano che si ritrova la sincerità di un uomo. E Andrè è grande, autentico e sincero. Un artista che danzerà per sempre. 

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