Lia Courrier: “Un messaggio nella bottiglia per insegnanti e genitori”

di Lia Courrier
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Questa settimana ho in serbo per voi ancora un consiglio su un profilo da seguire, quello della Dottoressa Daniela Lucangeli, professoressa di Psicologia dello sviluppo e dell’Educazione all’Università di Padova ed esperta di psicologia dell’apprendimento. Titoloni non sufficienti a dare un’idea della grandezza di questa donna straordinaria e di quanto sia importante la sua ricerca. Insegnanti e genitori dovrebbero ascoltare quotidianamente i suoi interventi, per direzionare le proprie energie e i propri sforzi verso obiettivi alti, con consapevolezza e lucidità.

Qualche giorno fa ho incontrato un suo video particolarmente ispirante, in cui qualcuno le ha chiesto cosa serva oggi alle famiglie in questa epoca dominata dai social e iper connessa per mantenere i propri figli agganciati emotivamente e abbattere il muro dell’incomunicabilità. Lei risponde che è come domandare di cosa abbiamo bisogno per dissetarci: è l’acqua che serve allo scopo. Ovvio.

Siamo gli uni lo specchio dell’altro, sistemi che tendono a risuonare, come un diapason in quiete che inizia a vibrare se viene messo accanto ad uno vibrante, oppure come le pendole nel negozio di orologi, avviate in momenti diversi, che in mezz’ora si armonizzano con le aste oscillanti sincronicamente in direzioni opposte: “uno strano tipo di empatia”, come lo stesso scienziato che studiò il fenomeno volle definirlo.

Cosa occorre, quindi ai ragazzi, per restare centrati nell’esistenza? La nostra presenza di adulti, autentica, matura.
Cosa occorre al così diffuso mancato riconoscimento emozioni? Le nostre emozioni di adulti, pienamente espresse, vissute, manifeste.

Parla quindi di intelligenza emozionale, dell’importanza di comprendere cosa sia questa grande assente nella discussione pubblica sulla formazione, così fortemente focalizzata sui numeri. C’è bisogno di guardarsi dentro e ricordarsi che “sentire” e “pensare” sono due attività differenti della mente, ridefinendo anche il concetto stesso di “mente” come qualcosa che non riguarda esclusivamente il cervello ma l’intero essere. Noi “siamo” una mente o meglio, la mente pervade ogni nostro aspetto ed è presente ovunque in ogni nostra espressione. Quando “sentiamo” rabbia, gioia, amore, quel sentimento esula dall’attività del pensiero, riguarda un’energia che sorge spontaneamente dall’interno, in risposta ad uno specifico contesto, e su questo sentire il pensiero non può nulla. Come a dire: devi perdere un po’ il controllo se vuoi davvero comprendere l’emozione che si sta manifestando in te.

Il web, i social media, non sono il male, ma purtroppo stanno lentamente portando le persone a vivere un’esistenza artefatta in cui si sceglie cosa mostrare e cosa nascondere, le emozioni e vissuti possono essere celati, non rivelati, messi sotto al tappeto o dietro ad una facciata di felicità socialmente accettabile, condita con esaltatori di sapidità. Questa mancanza di uno spazio adeguatamente ampio in cui le emozioni possano infondersi nel campo intorno, manifestarsi, compiere il proprio ciclo vitale e trasformarsi, sta dando come risultato una società fortemente ego riferita, in cui abbiamo bisogno di condividere ogni piccolo successo per sentirci vivi e importanti, in attesa del bagno di dopamina ad ogni like sonante ricevuto, in cui mettiamo davanti sempre e solo i nostri interessi personalità senza nessuna capacità di ascoltare attivamente le altre storie.

Le emozioni vengono quindi sottoposte a filtro (come le foto), caramellate, ricondizionate, confezionate, glitterate e solo dopo questo make-up, ciò che ne resta viene dato in pasto alla comunità digitale.

La mia generazione è forse la più esposta a questa tendenza, noto che nei giovanissimi una minore esposizione mediatica, leggono i contenuti ma non commentano, non partecipano, forse per non svelare il proprio punto di vista rendendosi vulnerabili, insomma: sono sui social ma come spettatori passivi e credo ci sia un lento ritorno a preferire il contatto viso a viso piuttosto che nascondersi dietro ad un monitor, lasciando la comunicazione digitale solo per alcuni ambiti dell’esistenza. Le generazioni X e Y (Millennials), invece, sono proprio quelle dei leoni da tastiera, delle risse digitali, del pubblicare le foto di ogni pasto, anniversario, matrimonio, funerale.

I figli di queste generazioni hanno probabilmente percepito i propri genitori perennemente assorbiti dentro a questi piccoli oggetti dalla luminescenza blu, presenti fisicamente ma psichicamente ed emotivamente altrove. Sono stati probabilmente esposti fin da piccolissimi all’utilizzo di questi dispositivi, sviluppandone una forma profonda di dipendenza di cui la Dottoressa Lucangeli ha più volte parlato in modo egregio ed esaustivo, anche dal punto di vista neuroscientifico, qualora foste interessati ad approfondire. Questo ha contribuito a creare distanza tra adulti e ragazzi, in ambito familiare e formativo. Non si tratta dello stesso tipo di gap generazionale di epoca pre-digitale, dove ad un certo punto della crescita si cominciava ad entrare in conflitto con gli adulti alla ricerca di una propria identità, di un proprio ruolo nel mondo. Quello scontro e l’attrito che ne deriva, rappresentano in realtà fondamentali fattori di crescita quasi assenti nel contesto odierno dove si tende ad evitare il confronto.

Assistiamo ad un inaridimento emozionale che ha gettato radici profonde, ora le emozioni ci fanno paura, le respingiamo o cerchiamo di fare in modo di schivare le situazioni in cui potrebbero affiorare e travolgerci. Peccato che le emozioni siano proprio ciò che ci rende umani, rinnegarle vuol dire rifiutare la nostra essenza più naturale.
Gli esseri umani hanno creato i computer e le macchine digitali ispirandosi a sé stessi, a questo straordinario organismo pensante che siamo, ma ora sembra quasi che i ruoli si siano invertiti e che ci sia un desiderio, neanche troppo latente, di divenire dei freddi e infallibili operatori di calcolo senza alcun moto emotivo.

Per proteggersi dalle emozioni si rimane in superficie, si resta nelle relazioni con oggetti, persone, luoghi, esperienze solo per il tempo necessario ad assaporarne la fragranza ma appena se ne approfondisce la conoscenza, a contattare anche gli aspetti meno accoglienti del contesto in cui si è penetrata la scorza, ecco che si passa immediatamente ad altro.
La conoscenza superficiale è un movimento che si espande orizzontalmente per accumulazione. Andare in profondità invece riguarda un moto verticale, non è l’oggetto d’osservazione a cambiare, ma il nostro punto di vista, per rivelarne ogni sfaccettatura, ogni colore, strato, forma, consistenza che lo compone.
La ricerca nella profondità comporta fronteggiare sfide, ombre, difficoltà, ostacoli, ed è proprio attraverso questa esplorazione che conosciamo meglio noi stessi. Nessuna strategia di evitamento è compagna degli abissi dell’essere, per sondare la quale veniamo chiamati a riconoscere e nominare ogni qualità emergente dallo spazio interiore.

Noi adulti possiamo diventare un valido sostegno in questo tipo di processo solo se siamo disposti noi per primi a farlo e, attraverso la nostra presenza e il nostro esempio, aiutare i giovani e giovanissimi a non temere di manifestare ciò che provano, riconoscere questi moti in sé stessi e anche negli altri, rispettarli, lasciargli spazio per dispiegarsi e rivelare le proprie qualità.
Soprattutto dovremmo imparare ad ascoltare attivamente il percepito (nostro e degli altri) in modo inclusivo, perché si parla così tanto di inclusione ma questa ha inizio proprio dentro ognuno di noi, altrimenti – come già esposto poco sopra – anche questo nobile concetto diventerà soltanto una facciata superficiale, estetica e formale, un paravento messo davanti ad un cumulo di spazzatura per non farla vedere a chi passa lì davanti, quando sarebbe più facile decidersi a gettarla via e liberare spazio.

Tutto ciò che è stato scritto in questo numero trova puntuale e coerente cronaca nell’arte, così focalizzata sulla performance tecnica, sulla quantità, sull’estetica impeccabile, alla ricerca di superficie per non affondare le mani nella profondità. Pittori capaci di riprodurre sulla tela un’immagine talmente fedele alla realtà da chiedersi a cosa ci serva la fotografia, scrittori e musicisti al soldo delle case discografiche e editrici che sostengono solo chi fa profitto, danzatori che stanno lentamente dimenticando il ruolo ancestrale del rito del movimento, che appartiene all’esperienza umana dalla notte dei tempi.
Forse l’umanità non ha bisogno di essere salvata dall’estinzione ma dall’inaridimento del cuore, e gli unici che possono compiere questo  miracolo siamo proprio noi stessi, ricordandoci chi siamo e tornando ad una qualità della comunicazione che sia semplice, spontanea, genuina.

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