Lia Courrier: “Tutti noi dovremmo poter fare di più per i nostri giovani danzatori, che dirgli: vai all’estero”

di Lia Courrier
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Esiste una questione generazionale, di cui si comincia a parlare solo negli ultimi anni: i percorsi scolastici sempre più incentrati sui test e sull’importanza delle votazioni, portano i ragazzi a sviluppare un grande stress da competizione, rendendoli molto più preoccupati dalle valutazioni ricevute, che alla qualità di ciò che hanno appreso. L’esperienza della formazione scolare sta diventando per loro solo una palestra per piccoli impiegati in erba, che non si fanno domande e che guardano solo alla produttività, accumulando punti per accaparrarsi i premi.

Credo che solo oggi cominciamo a renderci conto davvero delle ricadute di questa modalità. Proprio quella società che inneggia alla creatività, che guarda con ammirazione a chi coraggiosamente va contro corrente, che vive del mito dell’eroe solitario, alla fine costringe le persone a percorrere strade già segnate, a camminare in solchi già scavati da altri, se si vuole essere socialmente visti e accettati.

Scegliere di fare il danzatore è già di per sé una scelta politica, un modo per far sentire la propria posizione nei confronti del mondo. Chi sceglie di abbracciare un mestiere d’arte, e persevera in questo progetto sul lungo termine, è un ribelle, qualcuno che non accetta lo status quo o che mira a ribaltarlo, ma questo ha un prezzo, ossia andare incontro ad una vita ai margini, fuori dai tracciati sicuri, come gli esploratori del passato che si basavano sui calcoli ma soprattutto sull’istinto. Un’esistenza contrassegnata dalle audizioni che non portano a niente, al grande dispendio di energia che non sempre va a buon fine: bisogna essere molto forti e determinati per restare in equilibrio su questa fune con grazia. Questo non riguarda solo mantenersi fedeli al proprio progetto e non farsi distrarre dagli obiettivi, ma anche trovare la motivazione per continuare a studiare, conoscere, essere curiosi e preparati culturalmente, perché molto spesso i giovani danzatori che dichiarano di voler fare questo mestiere sono molto carenti da questo punto di vista. La mancanza di una cultura, di una visione che tenga conto della storia e della contemporaneità della danza, potrebbe rappresentare un problema, sia nella scelta del percorso che nelle aspettative di realizzazione ad esso conseguenti.

Un’altra questione è quella della supremazia del balletto, in Italia molto sentita. Non viene apertamente dichiarata, ma io la voglio dire esattamente come l’ho sempre percepita in questi anni con la danza: è come se il balletto fosse ritenuto la danza più alta e pura, e per chi non è in grado di farla, magari perché non ha un corpo adatto allo scopo, rimane solo la possibilità di ripiegare facendo altro, come ad esempio la danza contemporanea. La danza classica è sempre la prima proposta per le bambine, sono molto rari i centri in cui i più piccoli possono fare esperienze di ricerca del movimento, accedere alla danza senza passare dal balletto, e questa è un’enorme lacuna, un’occasione mancata, perché magari qualcuno potrebbe fin dall’inizio scoprire che esiste qualcosa di diverso, forse più adatto al proprio modo di essere, al modo in cui guarda al mondo. Nella mia esperienza ho incontrato tantissimi allievi letteralmente traumatizzati dalla danza classica, che non hanno più voluto studiarla perché si sono sentiti violati, costretti, forzati, annoiati. Sappiate che non siete sbagliati o incapaci, è solo che forse avreste avuto bisogno di un accesso differente al piacere di muoversi, che nel resto del mondo esiste, e questo è uno dei motivi per cui il livello tecnico e artistico dei giovani danzatori all’estero è notevolmente più alto: ognuno di loro ha potuto scegliere il modo migliore per cominciare un percorso con la danza, e questo ha concesso loro di sviluppare prima le competenze necessarie per quel dato tipo di linguaggio, con meno frustrazioni e più apertura mentale verso la danza in ogni sua forma possibile. Vedo molti giovani allievi nelle formazioni accanirsi a studiare balletto, quando palesemente la loro strada nella danza potrebbe splendidamente svilupparsi altrove, ma scelgono di non farlo anche perché la cultura di questo paese ha catalizzato il loro interesse, fin da piccoli, verso ciò che è stato presentato come detentore di maggior prestigio.

Questo è il panorama in cui i nostri giovani danzatori cercano di realizzare i propri progetti, in un contesto talmente difficile che a volte è preferibile nascondere i propri sogni nel cassetto, cercando di stare dentro a quei solchi di cui parlavamo, perché è più facile  e rassicurante starci dentro, sentirsi accettati da tutti, per prima la propria famiglia, piuttosto che cercare di avventurarsi fuori, anche a costo di non ascoltare il proprio cuore e  sviluppare frustrazioni.

Ma che mondo triste è questo, dove ti viene tolto anche il diritto di sognare?

Tutti noi dovremmo poter fare di più per i nostri giovani danzatori, che dirgli: vai all’estero.

Ma allo stato attuale cos’altro si potrebbe consigliare a chi davvero dimostra di avere determinazione e talento? Di restare qui prigioniero di 2 spettacoli al mese, se va bene, e di qualche residenza di tre giorni in una sala, senza neanche un impianto luci? Pagamenti a novanta giorni? Io onestamente spero che i miei allievi abbiano la possibilità e il coraggio di gettare altrove nuove radici. Non è bello essere obbligati a farlo, ma non è bello neanche sentire le proprie ali legate.

Se mi chiedeste di cosa ha bisogno la danza in Italia in questo momento, non vi risponderei visibilità. Di visibilità ne ha già troppa, purtroppo attraverso contenuti e canali spesso aberranti e distorsivi. Non vi risponderei denaro, basterebbe dare un’occhiata alla distribuzione del FUS per capire che il problema non sta tanto nella ricchezza ma nelle modalità di assegnazione.

Alla domanda risponderei che la danza ha bisogno di un investimento sul futuro, non in denaro ma in idee, progetti e impegno. Sul presente c’è ormai ben poco da fare, nella condizione disperata in cui versiamo, ma sul futuro c’è margine di cambiamento, e per attuarlo bisogna partire dalla formazione: sedi pubbliche per la formazione dei danzatori, così come accade per i conservatori presenti in quasi tutti i paesi europei, dalla Francia alla Spagna (non considero i licei coreutici idonei al ruolo, mi dispiace, ma non prevedono un numero di ore di pratica adeguato alla preparazione di un danzatore)

Solo una formazione istituzionale può rendere istituzionalmente riconosciuto anche il mestiere della danza. Certo, ci sarebbe da parlare della trasparenza delle nomine di docenti e direttori, ma questo vaso di pandora magari lo apriremo un’altra volta.

Allo stato attuale, però, mi sa che quanto ho scritto potrebbe essere utile solo come contenuto di una letterina a Babbo Natale, dispersa nei meandri di un ufficio postale.

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