Lia Courrier: “Qual è il futuro/presente della danza?”

di Lia Courrier
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Quello che state per leggere è una riflessione nata da un dialogo avuto qualche giorno fa con una delle mie studentesse, davanti ad un caffè, in un’umida mattina milanese.

Oggetto della discussione: qual è il futuro della danza?

A dare il via al confronto è stato l’aver assistito ad alcuni spettacoli in cartellone (non a Milano, ovviamente, piazza ormai morta per quanto riguarda la danza di ricerca) che hanno lasciato dei segni, delle impronte sensoriali e mentali nel campo dei ragazzi, che infatti hanno sentito l’esigenza di confrontarsi, tra loro e con noi docenti.

Ci sono degli autori secondo me importantissimi nel panorama della contemporaneità, che sono riusciti a inserire il lavoro sul corpo e la ricerca del movimento in un contesto più ‘totale’, in cui le varie componenti di una performance – scenografia, luci, musica, testo, drammaturgia e ovviamente la danza – coesistono in un equilibrio in cui nessuno di questi è più importante degli altri, in una storia di reciproco arricchimento. Da che ricordi, i primi che mi hanno colpita per questa visione sono stati: Maguy Marin, Alain Platel e La Fura del Baus. Della prima ho già parlato diverse volte, la mia adorata ‘pasionaria della danza’, che considero geniale. Il secondo è stato il nucleo creativo de Les Ballet C de la B, e la cosa che mi ha sempre colpito di lui, nonché forse la chiave di lettura dell’intera mia argomentazione, è che Alain Platel ha alle spalle una formazione come mimo e come pedagogista del recupero, lavorando con bambini con disabilità fisiche e mentali, esperienze che hanno certamente influito sulla sua opera con la famosa compagnia belga, ampliando lo sguardo sul processo creativo. La terza non è neanche una compagnia di danza, ma di teatro fisico (confine davvero sottile, le distinzioni riguardano solo una questione formale e non di sostanza, per quanto mi riguarda) che ha realizzato opere molto diverse tra loro, dallo spettacolo itinerante all’opera lirica, passando dalla prosa, spettacoli di ampio respiro, potenti e intensi.

Il concetto chiave del mio pensiero, è che nell’immaginario di chi crea spettacoli di danza, si passai dalla centralità della coreografia ad uno sguardo più simile a quello del regista. In questi ultimi anni la danza ha continuato a celebrare sé stessa e il corpo, portando le competenze e le abilità tecniche dei danzatori a livelli mai conosciuti in termini di resistenza, velocità, esplosività, atletismo. Guardo i giovani danzatori e rimango colpita dalla loro qualità di movimento, dall’enorme tavolozza di colori che hanno sviluppato, dalla libertà di un corpo non più vincolato da forma e estetica, ma mosso da qualcosa che arriva dall’interno, però…però…ho la sensazione che questa grande attenzione data a questi aspetti abbia come fatto perdere un po’ di vista il quadro più grande, abbia focalizzato lo sguardo all’interno di un recinto autoriferito e poco propenso ad una concezione olistica dell’opera. Penso che queste qualità del corpo danzante sarebbero molto più valorizzate se messe al servizio della drammaturgia, insieme agli altri elementi e ai professionisti che se ne occupano.

Quando guardiamo uno spettacolo di Peeping Tom o di Dimistris Papaioannou, tanto per citare le presenze più interessanti del momento nell’ambito di riferimento, siamo al cospetto di una esperienza immersiva che colpisce i sensi, le memorie, la mente e il cuore di ogni spettatore, e lo fa in un modo diretto e senza intermediari, con un linguaggio che non utilizza un solo canale di trasmissione, ma si muove attraverso una stratificazione di stimoli, rendendo quello che stiamo guardando molto simile alla pasta di cui è fatta la vita stessa, che è complessa e stratificata, ma con una consistenza che a volte è più simile a quella dei sogni, un ‘altrove’ che si sposa perfettamente con l’esigenza scenica di raccontare la realtà da un punto di vista irreale. I danzatori sono sempre straordinari, corpi in grado non solo di eseguire i movimenti in modo impeccabile, ma anche di cambiare lo stato della materia, modificare gli spazi interni ed esterni attraverso forza, sensibilità, esperienza e sapienza. Tutto questo, però, quasi non si vede, perché viene messo al servizio del racconto: la danza non è al centro dell’attenzione, ma si rende utile per un obiettivo più alto, e quindi smette di essere una mera, egoica esibizione delle proprie capacità fisiche, per diventare umile strumento di trasmissione.

Questo a me piace.

Mi piace quando un autore mi porta dentro al suo mondo.

Mi piace quando vedo la capacità di incarnare un’idea, di portarla dallo stato immateriale di concetto a qualcosa di concreto e manifesto e soprattutto che sia codificato per raggiungere lo spettatore in modo chiaro (anche se non lineare). Questa non è una capacità che si può improvvisare, ma una sapienza che richiede tecnica e conoscenza.

Mi piace quando in ogni momento, percepisco che l’autore si è chiesto ‘perché’.

Cercando di dare una risposta alla domanda iniziale: la danza e il corpo da soli non bastano. C’è bisogno di integrare tutti gli strumenti disponibili alla ricerca di nuove visioni, in un ‘intero’ che sia più della mera somma delle parti che lo compongono.

Ovviamente le compagnie e i coreografi che ho citato operano in contesti sociali e culturali in cui qualcuno ha investito nella loro visione. Ci sono paesi europei che godono di una situazione economica favorevole, ed è proprio per questo che i governi, ma anche i privati, di buon grado investono nella cultura. Il nostro paese, purtroppo, versa in una condizione economica che considero sull’orlo della bancarotta. Al di là del fatto che nessun governo degli ultimi 40 anni abbia mai mostrato interesse nei confronti della cultura (a meno che non si tratti di autori morti da più di un secolo), direi che con una crisi economica come quella che stiamo vivendo in questi anni, con la chiara sensazione che la situazione non migliorerà ancora per molto tempo, non possiamo certo aspettarci di poter avere le stesse possibilità di fare ricerca come ad esempio accade in Belgio.

Questo è uno dei motivi per cui fare arte in nessun modo può essere disconnesso da quello che è la politica e la realtà sociale di cui è cronaca (consapevolmente o meno). Se persino le scelte quotidiane dei consumatori sono connesse all’idea di ‘fare’ politica, come può un artista considerarsi separato da tutto questo?

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1 commenti

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Giovanna Joglekar 21 Novembre 2021 - 12:27

Sono perfettamente d’accordo! Bell’articolo chiaro e diretto.

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