Lia Courrier: “Le allieve di danza, lo specchio, e il giudizio”

di Lia Courrier
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Sono già in sala qualche minuto prima della classe di balletto.

Le allieve hanno pochissimo tempo tra una lezione l’altra per prepararsi, così se ne stanno tutte in fila davanti al grande specchio sistemandosi il gonnellino, le calze, le scarpette o i capelli. Sono tutte giovani e meravigliose, nello splendore dei loro anni e nella totale inconsapevolezza della loro bellezza luminosa. Gli sguardi vigili esaminano avidamente l’immagine riflessa, senza tralasciare nessun angolo remoto e ogni giorno, almeno una volta, colgo quella espressione sui loro visi: il giudizio. Ogni tanto il pensiero prende forma ed esce dalle labbra appena socchiuse: “faccio schifo”.

Ogni volta mi si spezza cuore. Conosco bene quei processi mentali e so da dove sorgono quei pensieri autodistruttivi. Quando oggi mi capita tra le mani qualche vecchia foto di quando avevo la loro età, sono rare perché non amo farmi fotografare, mi rendo conto di quanto fossi cieca allora, a non vedere la mia bellezza. Per quanto ancora noi donne saremo schiave di questo condizionamento culturale? Quando finalmente ci riprenderemo il nostro inalienabile diritto di esistere esattamente come siamo?

La questione femminile è un argomento sempre attuale, a cui si dovrebbe essere introdotte, in modo critico e consapevole, fin da bambine, per sognare (e realizzare) un mondo in cui le donne possano essere davvero libere. La storia ci insegna che tutto è ciclico e nulla continua la sua curva di crescita in modo costante e unidirezionale. Sotto certi aspetti la condizione femminile è certamente migliorata ed esistono innumerevoli aspetti della nostra vita che hanno visto una evoluzione, grazie alle lotte di chi ci ha precedute. Ma in altri ambiti invece noto una preoccupante deriva, che limita ogni giorno sempre di più il nostro potenziale, e il discorso ha ricadute talmente ampie che rischio di perdermi. Mi limiterò quindi ad un singolo punto di osservazione: la schiavitù dell’immagine stereotipata della femminilità, che inibisce la nostra possibilità di esprimerci spontaneamente.

Esiste un ideale di bellezza femminile, sempre più omologato e artefatto, che ammicca da qualsiasi cartellone pubblicitario, dal web, dalla televisione, dai videoclip. Una perfezione posticcia, ottenuta a colpi di post produzione, se non quando ci si mette di mezzo la chirurgia estetica. Una pressione culturale e sociale che pesa come una spada di Damocle sulla percezione che le donne hanno di sé stesse, fortemente direzionata al consenso e alla seduzione come unico obiettivo. Tutte noi, fin dall’infanzia, veniamo costantemente esposte a questo tipo di sollecitazione e basta confrontare le adolescenti di oggi con quelle della mia generazione, per rendersi conto di come il processo sia andato avanti inesorabilmente: l’iper sessualizzazione delle bambine, nel tempo, ha portato a una forma di dimorfismo cognitivo, e tutto sta accadendo sotto ai nostri occhi, senza che nessuno accenni a fare qualcosa: si riconosce il problema, esiste una sostanziosa letteratura a riguardo, ma alla fine le si lascia sole e vulnerabili davanti a questo contesto insano.

La tendenza comune è quella di cercare di omologarsi a questo ideale, per sentirsi accettate, vincenti, ammirate, proprio come dice un noto claim: perché tu vali. Sì, certo, ma solo se rispondi a questo modello, perché se scegli di non coprirti i capelli bianchi o di non truccarti, sei sciatta e non vali poi così tanto. La verità è che la bellezza è una naturale emanazione di ciò che viene da dentro, dal cuore, dal pensiero, dalla personalità, e non una bella scatola da decorare. Per quanto possa essere bella la confezione, poi, bisogna anche occuparsi di cosa ci si mette dentro. Yukio Mishima ha scritto una sublime riflessione sulla bellezza, di cui qui riporto solo una stralcio: “Generalmente la bellezza non ha il tempo di cogliere il suo fascino. Si potrebbe persino affermare che proprio in questa assoluta non coscienza di sé, la bellezza assume la sua forma più pura ed essenziale”. Questo modello così sfacciato e rumoroso che ci chiedono di seguire non rispecchia la potenza profonda femminile, che fa del mistero la sua calamita più potente.

Nella danza l’importanza dell’estetica è già una ossessione, esiste in modo intrinseco, in parte anche a causa del tempo che si trascorre davanti allo specchio ad analizzare ogni dettaglio, a cercare quella chimera chiamata perfezione, con indosso abiti che non lasciano nulla all’immaginazione e che ti mettono a nudo. Chissà come mai, però, nelle ragazze questo porta ad una percezione di sé aberrata e alla manifestazione di fissazioni che possono sciare in derive anche drammatiche, mentre questo tipo di schemi mentali sono meno evidenti nei ragazzi, che trovo vivano con più equilibrio la relazione con il proprio corpo.

Credo siamo di fronte ad un problema sociale e non solo specifico del nostro mestiere: oggi il corpo della donna è più che mai un oggetto, e anche chi decide di stare fuori a questi meccanismi perversi in qualche modo ne viene condizionata. Personalmente non sono mai stata attenta all’estetica, e chi mi conosce sa bene quanto poco mi importi di ciò che metto addosso o dell’avanzare delle rughe sul mio viso, ma questa è una conquista fatta nel tempo. In un passato nel quale ancora non sapevo ancora bene chi fossi, ho cercato di adeguarmi al modello di riferimento, perché era implicito che il dovere di una donna dovesse passare per depilarsi le gambe, vestirsi alla moda, andare dal parrucchiere e truccarsi tutti i giorni, per essere riconosciuta, per essere vista. Poi un bel giorno ho capito che quella che mi guardava dallo specchio non ero io, ed è stato come liberarmi da un fardello penoso e pesante che mi portavo dietro non solo dalla nascita, ma da chissà quante generazioni di donne prima di me che avevano fatto quegli stessi gesti e pensieri ogni giorno. Ci hanno convinte che questa sia la libertà: essere seducenti e perfette per chiunque ci incontri con lo sguardo. E per questo dobbiamo piegarci a indossare scarpe che ci deformano i piedi o abiti che ci impediscono di muoverci con agio. Per essere libere da questa gabbia bisognerebbe parlare di bellezze, declinato al plurale, e non di bellezza femminile, perché sono tante le forme in cui questa può manifestarsi.

Sul palco possiamo diventare ciò che vogliamo, la tecnica ci sostiene in questa impresa ed è questo il motivo per cui studiamo così a lungo, per avere un corpo capace di trasformarsi, indipendentemente dalla forma materica in cui si è incarnato. Sogno un giorno di vedere un’espressione di approvazione sul viso delle mie allieve che si guardano allo specchio, un attimo prima di andare alla sbarra, consapevoli della loro unicità e della loro radianza gioiosa, che nasce spontaneamente in chi ama, accoglie e riconosce sé stesso.

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