Qualche settimana fa ho guidato un incontro di approfondimento sullo yoga, in cui si è parlato di uno dei precetti etici e morali che sono alla base della pratica (ebbene sì, lo yoga non è una ginnastica ma una scienza dell’anima): non appropriarsi di ciò che non ti appartiene (Asteya, in sanscrito).
In questo precetto rientra certamente anche il nostro comandamento “non rubare”, ma nell’ambito dello yoga il significato si estende oltre il mondo degli oggetti materiali, includendo anche idee, sentimenti, concetti.
Abbiamo affrontato lo studio di questo principio dal punto di vista di chi ruba, ma anche da quello di chi viene derubato, perché in entrambi i ruoli esiste il rischio di cadere in varie tipologie di afflizioni mentali che lo yoga chiede di estinguere, attraverso la pratica quotidiana, per poter vivere un’esistenza libera da ogni limite, pregiudizio, paura.
Mentre parlavo mi ha visitata il pensiero di questa tematica nell’ambito della danza e della sua trasmissione: il furto più o meno dichiarato di coreografie, metodi, lezioni.
Chi si appropria delle composizioni altrui probabilmente soffre di un complesso di inadeguatezza oppure di una pigrizia atavica per cui pensa che sia molto meglio usare materiale di altri piuttosto che spingersi nel coraggioso atto di comporre il proprio. Creare danze non è un talento che hanno tutti, non basta conoscere la tecnica e i passi o leggere manuali di composizione coreografica (ammesso che esistano, a parte quello di Doris Humphrey) per essere in grado di mettere armoniosamente i movimenti uno dietro l’altro, perfettamente aderenti alla partitura musicale. Chi non possiede questa scintilla può sentire il peso della sfida compositiva, magari con delle aspettative nella mente e fascinazioni dai grandi coreografi geniali e le loro creazioni.
Bisogna ammettere candidamente e senza giudizio che nel campo dell’arte tutti iniziano copiando, la pittura ne è un esempio lampante: riprodurre opere famose è una scuola importantissima e irrinunciabile per chiunque voglia imparare a tenere un pennello in mano. Molti pittori celebri in tutto il mondo hanno cominciato nella bottega di qualcuno, imitandone lo stile. Anche nella danza, nel cinema e nella musica esistono personalità molto forti da cui tutti quelli che sono venuti dopo hanno in qualche modo “rubato” qualcosa nel tentativo di replicare quella grandezza, di farla propria.
Non c’è nulla di male nel farlo come omaggio, citando la fonte d’ispirazione, oppure farlo rielaborando, metabolizzando e restituendo qualcosa di diverso e personale rispetto all’oggetto a cui si è partiti. La nostra mente non può creare nulla che esuli dal bagaglio dell’esperienza umana, intesa come specie, collettività. Qualcuno è capace di rielaborare con particolare attitudine al punto da far sembrare la propria opera qualcosa di mai visto prima, ma di fatto tutti seguiamo una linea evolutiva che si relaziona a chi è venuto prima, con o contro.
Diverso è rubare con l’intento di far passare quella creazione come farina del proprio sacco, l’intenzione dietro all’azione è tutto e questa è una di quelle da evitare. Un caso famoso, anzi due, riguardano la cantante Beyoncé, accusata di plagio dal gruppo “Las Redes” per l’esplosivo video del brano “Single Ladies” che ci ha fatto ballare per anni, e nientemeno che da Anna Therese de Keersmaeker per il video del brano “Countdown”. I creativi che seguono questa star della musica non mancheranno certo di capacità, a prova di questo la grande qualità di questi due prodotti, eppure anche loro sono caduti nell’infrazione del principio morale di non rubare, forse pensando che la De Keersmaeker fosse una semisconosciuta coreografa europea e nessuno se ne sarebbe accorto.
Diverse volte mi è capitato, nel proporre seminari di danza o di yoga, di essere contattata da potenziali partecipanti per chiedermi se alla fine sarebbero state rilasciate sequenze da poter usare, con le musiche abbinate (nel caso della danza). Ogni volta sono rimasta stupita dal fatto che queste persone non fossero interessate a partecipare per apprendere nuove abilità e strumenti per essere autonomi dal punto di vista della creazione di contenuti, bensì a partecipare per acquistare materiale da usare poi nel proprio lavoro, senza neanche la fatica di rielaborarlo.
Appropriarsi delle idee degli altri, senza alcun processo di trasformazione è deprecabile già nel caso della condivisione di una frase sui social senza citarne la fonte, ma nel caso dell’arte è doppiamente triste, dal momento che la creatività è proprio la linfa dorata che ne sostiene la libera espressione.
D’altro canto, molti insegnanti di danza e coreografi appaiono ossessionati dall’idea che qualcuno possa appropriarsi del loro lavoro, ho visto maestri fare lezione in sale chiuse senza finestre sospettando che persino gli allievi fossero lì solo per copiare le coreografie e che non si scucivano neanche a dirti di chi era la musica che stavano usando, come se fossero i detentori dei diritti per quei brani. Nel momento in cui crei qualcosa la stai già donando al mondo, non è più tua, la creazione artistica è come un essere che una volta nato vive di vita propria. Ogni tentativo di replica è vano, perché l’originalità di un’opera è la sua forza, la sua potenza non potrà mai essere mai offuscata da un pallido riflesso. Quindi perché questa ossessione?
La qualità che secondo me un insegnante dovrebbe avere in ogni espressione del suo essere, almeno per quanto riguarda il lavoro, è la generosità. L’ aridità nel condividere saperi e conoscenze che ogni tanto si può riscontrare in qualcuno è singolare, quasi in contraddizione con la missione che si è scelto di seguire e realizzare.
Personalmente non ho mai pensato che qualcuno potesse derubarmi delle idee, fino a che non mi è stato fatto notare che sono troppo aperta e disponibile a condividere ogni cosa con chiunque (musiche, libri, fonti). Premesso che non credo di avere chissà quale guizzo creativo, se proprio dovessi scoprire che qualcuno ne ha copiato qualcuna mi sentirei prima di tutto lusingata, apprezzata, ma tutto sommato non riuscirei ad arrabbiarmi perché posso sempre crearne altre cento per conto mio, ho gli strumenti e le conoscenze per farlo quindi se una persona ha trovato interessante la mia proposta al punto di usarla, sebbene senza citarmi, per me va bene così.
Marie Chouinard, ad esempio, è una coreografa molto protettiva nei confronti delle proprie opere. Ad una conferenza a cui ho assistito, serata davvero interessante e straordinaria in cui lei si è raccontata attraverso il movimento, la parola, la voce, il silenzio, ci ha fatto visionare delle registrazioni dei suoi lavori ma purtroppo si è trattato di istanti, attimi troppo brevi per godere della sua opera in modo soddisfacente. Questo perché, lei stessa ci ha spiegato, voleva proteggere il suo lavoro.
La cifra stilistica di questa coreografa è riconoscibile, ne palesa la maternità senza alcun dubbio possibile, se qualcuno dovesse appropriarsi delle sue idee, immagini, atmosfere, sarebbe palese agli occhi di tutti a chi sono state rubate. Una copia non potrà mai essere potente come l’originale e sebbene possa comprendere quanto il furto di idee possa essere molesto, penso anche che un artista dovrebbe essere più generoso nel donare la propria opera al mondo, lasciandola libera di interagire con esso in ogni modo, anche questo meno piacevole. Vivere nella perenne convinzione che qualcuno possa appropriarsi delle proprie idee non è sano, la costante minaccia percepita può far diventare le persone sospettose, chiuse, diffidenti, una condizione molto distante da ciò che un artista dovrebbe essere, nel migliore dei casi.
Oggi l’avvento dell’intelligenza artificiale ci pone di fronte alla questione dell’appropriazione delle immagini, delle idee e -chissà – forse un giorno anche delle coreografie. In questo enorme calderone di opere artistiche, letterarie, giornalistiche che fluttuano nell’immenso oceano di dati presenti in rete, l’intelligenza artificiale coglie ciò che le serve per rispondere alle richieste degli utenti. In barba ad ogni sforzo per proteggere le proprie opere, per gli artisti sarà persino impossibile rivendicare la proprietà delle opere una volta passate nel tritacarne di questo nuovo strumento tecnologico.