Lia Courrier: “L’abisso culturale che affligge parte degli insegnanti di danza”. Prima parte

di Lia Courrier
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Assisto ad una demonizzazione generalizzata dei social, accusati di essere la causa dell’inaridimento nelle relazioni tra esseri umani. La cosa buffa è che il più delle volte queste accuse vengono lanciate proprio sugli stessi social oggetto dell’attacco, cosa che trovo quantomeno divertente. Credo che la tecnologia digitale non sia dannosa in quanto tale, ma che la differenza la faccia l’utilizzatore finale e la sua capacità di integrarla nella propria esistenza con equilibrio e discernimento.

Nelle scorse settimane, su uno di questi strumenti del demonio, ho intavolato una discussione con alcuni colleghi, i pochi capaci di esporre le proprie idee anche con forza, ma senza mai mancare di rispetto agli altri, persone che forse si prendono il tempo di rileggere quello che hanno scritto prima di pubblicare, che hanno interesse a valutare punti di vista diversi dal proprio, e che non vivono nella convinzione di avere come interlocutori degli emeriti deficienti. Delle rarità, insomma, in mezzo a tanti leoni da tastiera, ma forse questo è anche il risultato della scelta, da parte mia, di operare una selezione, allontanando chi non è in grado di mantenere un atteggiamento civile e rispettoso nei confronti dell’altro. Se nella vita posso scegliere chi frequentare, non vedo proprio alcun motivo di non applicare questa semplice regola anche nella mia cerchia di conoscenze in rete. In questo modo i social possono diventare luoghi di scambio interessanti, un ambiente stimolante e sempre ricco di ispirazioni, di articoli interessanti, di spunti di riflessione, al punto che il vero problema sta diventando stare dietro a questo enorme quantitativo di materiale: sul computer ho una cartella piena zeppa di articoli che conservo per quando avrò tempo di leggerli.

L’oggetto di discussione da me portato in questa occasione, parte dalle innumerevoli proposte di corsi di danza contemporanea, che in realtà si rivelano, nel migliore dei casi, lezioni di danza moderna, e la necessità di mantenere un’etica nella diffusione di una sana cultura della danza, soprattutto in un ambito che si definisce contemporaneo, ma che in Italia è ancora legato a figure del passato (remoto), senza alcun contatto con la contemporaneità che si prefigge di rappresentare.  L’argomento è stato più volte trattato, proprio in questa rubrica, ma questa volta vorrei portare la voce delle tante persone che hanno commentato il mio post, perché rappresentative del pensiero sulla danza e il suo insegnamento.

In generale sono emerse due filosofie di pensiero: da una parte coloro che sentono la necessità di fare un distinguo tra i corsi diretti alla formazione professionale e quelli invece diretti ad un pubblico amatoriale, atteggiamento che fonda le sue basi sul timore che, ad esempio, una lezione di danza contemporanea sarebbe troppo noiosa per un pubblico amatoriale, per di più giovane.

Secondo altri, invece, è molto importante che proprio nei corsi amatoriali vengano date informazioni precise e puntuali, poiché in fondo ogni danzatore professionista ha cominciato in una struttura di questo tipo. Gli allievi si meritano quindi di ricevere una informazione corretta per evitare, ad esempio, una volta passati ad una formazione professionale, di ritrovarsi con un bagaglio culturale e degli schemi motori totalmente inutili per il percorso prescelto.

La questione della contaminazione tra i linguaggi risulta essere cruciale, questo fenomeno rende difficile vedere chiaramente dei confini dove un tipo di tecnica finisce e ne comincia un’altra, ma per un occhio esperto e preparato culturalmente, questa linea di demarcazione è ben definita, non ci sono dubbi. È sotto gli occhi di tutti che la danza si nutre di sé stessa, mescolando elementi anche molto distanti tra loro per far nascere qualcosa di nuovo. Io stessa non sono una amante delle etichette, ma credo che per poter apprezzare e comprendere questo processo di confluenza culturale, presente in tutte le arti dacché esiste questa esigenza espressiva nell’uomo (pensate a Picasso e l’arte africana, Van Gogh e le stampe giapponesi o agli esperimenti di inclusione sociale nati in Francia che hanno messo in contatto la cultura hip hop e la danza contemporanea), sia necessario avere una profonda conoscenza per comprendere il percorso che ha portato a quel risultato. Nel caso della formazione aggiungerei anche un aspetto non secondario: questo tipo di influenze tra i linguaggi e le correnti artistiche, hanno ragione d’esistere se sei un autore, allora puoi utilizzare tutto ciò che sai per esprimere te stesso, sperimentando anche strade mai percorse prima, alla ricerca di qualcosa di autentico, di tuo. Quando si parla di insegnamento è tutta un’altra cosa, perché si comunica con gli studenti attraverso un metodo didattico, una tecnica, che diventa un ponte per trasferire delle informazioni che hanno a che fare con i principi biomeccanici, con la propriocezione e certamente anche con qualcosa d’altro che riguarda la comunicazione. Sono pochi i Maestri del passato che ci hanno lasciato delle ‘tecniche’ delle metodologie formulate nel tempo e riconosciute negli anni, utilizzate da migliaia di insegnanti per tramandare quel sapere. Prima di mescolare ingredienti bisogna conoscere i singoli componenti, altrimenti non si ha una completa padronanza di quello che si trasmette ai propri studenti, o forse si rimane sulla superficie di un’idea estetica che quel genere di linguaggio dovrebbe avere. Il metodo richiede un’elaborazione, non semplice imitazione. Ecco come si svela da solo l’enorme abisso culturale che affligge una sostanziosa parte degli insegnanti di danza, mascherato da parole quali: contaminato, contaminazione, e tutto quel linguaggio che mette insieme tante cose diverse all’insegna dell’ibridazione, che se poi vai a guardare bene si tratta sempre delle stesse nozioni trite e ritrite, rimesse in una veste dal suono esotico e misterioso che tanto funziona per vendere le lezioni.

L’errore qui sta nel dare per scontato che gli allievi non siano in grado di apprezzare l’autenticità di una proposta, siamo noi adulti i primi a cercare di infarcirla per renderla più appetibile, come si fa quando ci si inventa nuovi modi di preparare le verdure per fargliele mangiare, quando basterebbe semplicemente che il bambino vedesse il genitore apprezzare sinceramente quell’alimento, per prendere in considerazione l’idea di nutrirsene.

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