Negli ultimi mesi mi è capitato almeno tre volte di condividere il bando di un’audizione e di ricevere messaggi da colleghi per allertarmi sulla condotta del coreografo di turno. Una volta perché la compagnia ha ritardi clamorosi sui pagamenti, non fa contratti regolari o non riconosce i contributi; un’altra volta perché il coreografo molesta sessualmente, oppure abusa verbalmente e bullizza i collaboratori; persino che fa uso di droghe con conseguente imprevedibilità delle reazioni. Aggiungi varie ed eventuali.
Ringrazio di cuore le persone che fanno queste segnalazioni, perché essendo una formatrice è importante che io sappia cosa propongo, mantenendo coerenza con l’etica professionale di cui tanto parlo durante le lezioni. Per questo motivo ho deciso che non condividerò più alcun bando per audizioni, dal momento che trovo impossibile poter sapere vita, morte e miracoli di chiunque e non ho le risorse per assoldare un’agente privato per scoprire tutti gli scheletri nell’armadio di ogni coreografo (neanche mi interessa farlo, rabbrividisco all’idea).
Il fatto di essere famosi, celebri o degli emeriti sconosciuti, non pare conti molto: questo tipo di segnalazioni mi sono giunte in modo trasversale, parlando dal punto di vista umano. A livello politico ed economico, invece, il peso e la fama della personalità in questione possono fare la differenza influendo sulla disponibilità dei danzatori a tollerare certi comportamenti pur di partecipare alle produzioni.
Ho scambiato qualche impressione su questi fatti, con altri colleghi, ne abbiamo concluso che probabilmente l’incontro tra danzatori e coreografi è un avvenimento che ha a anche fare con il magnetismo, con la qualità dei rispettivi campi energetici, delle storie personali.
Da un lato chi sceglie, coscientemente o meno, di ricoprire il ruolo di guida, possiede un profilo psicologico da leader, con una certa propensione a porsi come colui o colei che prende le decisioni, ha l’ultima parola, si assume le responsabilità delle proprie scelte, sia dal punto di vista artistico che amministrativo. Il coreografo è l’unico che ha la visione di ciò che vuole ottenere dal processo creativo, il suo sguardo è nel presente, valuta le risorse umane in quel momento a disposizione, le capacità, personalità, disponibilità dei singoli elementi; ma allo stesso tempo sa perfettamente dove vuole portarli, con uno sguardo proiettato in avanti e che vola alto, mantenendo nel campo visivo il quadro nella sua interezza. Il coreografo è in sala con i danzatori, certo, ma è come se li osservasse da una dimensione differente, come se si trovasse in uno strato di realtà attiguo ma non proprio lo stesso.
Questo ruolo comporta essere sottoposti alle lodi così come alle critiche. Una buona compagnia può anche valorizzare il lavoro del coreografo, ma se la creazione in sé non funziona dal punto di vista coreografico o registico, non c’è nulla che gli interpreti possano fare per salvare la situazione. Il coreografo è pronto ad assumersi il peso del suo lavoro, quindi, ad accusare il colpo di un insuccesso, a scendere a tutti quei compromessi che permetteranno al suo progetto di crescere. Questo richiede di sviluppare un ego di una certa misura, per sostenere un tale peso, che rischia di sfociare in comportamenti prevaricanti verso gli altri, quando la persona non è ben centrata nel suo sé profondo, guardando i danzatori come fossero pedine, strumenti, oggetti al proprio servizio e non persone.
Dall’altro lato abbiamo i danzatori, creature predestinate alla disciplina, sia quella richiesta e autoimposta. La formazione come danzatori richiede di sviluppare fin da piccoli un certo asservimento all’autorità del maestro e in questi anni si è parlato molto di metodologie, pedagogia, psicologia applicate all’insegnamento della danza. Tanti sono gli episodi oggi venuti alla luce, alcuni dei quali hanno per protagonisti maestri molto conosciuti, che hanno superato il limite sfociando in abusi, umiliazioni e altri comportamenti certamente poco nobili che gli allievi hanno dovuto subire.
Sono convinta, ormai da decenni, osservando il mio percepito e i comportamenti delle persone intorno a me, che il profilo psicologico del danzatore professionista abbia una base di masochismo. Chi non ha questo tipo di attitudine, almeno un po’, si ferma prima, non prosegue, indirizza la propria vita lavorativa altrove e magari pratica danza come amatore, perché non è disposto a tollerare certe pressioni.
Sul piano strettamente fisico, gestire un corpo perennemente dolorante e a rischio infortunio (non è sempre così ma diciamo che utilizzando il corpo come strumento è abbastanza comune la convivenza con il dolore), esibirsi in ogni condizione, sostenere ore e ore di lavoro magari dopo un viaggio lungo e sfiancante, fanno sì che si instauri questo programma psichico del sacrificio, parola che ritorna molto spesso nei discorsi di chi danza.
A livello psichico, lavorare per un coreografo può essere estenuante, anche quando si apprezza la sua ricerca. Ci si deve mettere al servizio della creatività di un’altra persona, sforzarsi di entrare nella sua visione, plasmare il corpo alle richieste, anche quelle più folli o estreme. Quando le parole non riescono a trasmettere bisogna andare per innumerevoli tentativi e una costante, perpetua ripetizione dei movimenti. Si può spendere anche un’intera giornata per una sequenza di pochi minuti e questo a volte può minare la propria autostima, pazienza, sopportazione.
Ogni volta che si inizia un processo creativo, la prima parte è la più divertente. Si improvvisa, si ricerca, ci si sente liberi davanti ad un foglio bianco in attesa che le linee vengano tracciate. Poi inizia la fase più delicata: scegliere, sedimentare, comporre la danza, e questo a mio parere è il momento più estenuante e faticoso. Uno sforzo condiviso tra i danzatori e il coreografo, il più delle volte un braccio di ferro, per dirigersi insieme verso una meta comune ma -come ho scritto prima- i danzatori si trovano su uno strato di realtà diverso, senza davvero poter accedere all’idea che il coreografo sta alimentando nella propria mente e di come questa costantemente cambi insieme alle circostanze.
Non ho mai fatto una sala prove senza qualche tensione.
Abbiamo quindi un profilo masochista che ne incontra uno di tipo sadico. Parlo per archetipi, ovviamente, che nessuno si offenda, ma al mio sguardo questo schema emerge con una chiarezza plateale, in ogni espressione di questa relazione.
Possiamo fare in modo che le cose cambino? Appoggiare e sostenere chi ha il coraggio di denunciare gli abusi? Certamente. In passato c’era meno consapevolezza su certe cose ed è questo il motivo per cui oggi ogni relazione lavorativa chiede di rispettare determinati standard relativi al benessere e ai diritti del lavoratore, su questo non ci sono dubbi.
La domanda che è sorta dalle condivisioni con i colleghi è: la danza resterà la stessa se queste modalità, profondamente radicate nella storia stessa della danza e del suo insegnamento, saranno abbandonate per un approccio più formale e distaccato?
Non ho risposta a questo quesito, quello che so è che quando vediamo le performance che hanno lasciato un segno nella storia, per esempio quelle della compagnia originale di Pina Bausch, restiamo colpiti non solo per la bellezza estetica di ciò che vediamo ma anche per qualcos’altro di più sottile ma palpabile: l’urgenza, l’impegno, la vibrante energia di ogni gesto, la radianza drammatica degli interpreti, le storie profondamente legate alla condizione umana
Tutto questo è frutto della personalità di Pina, che in molti hanno definito “dispotica”, capace di raggelarti con uno sguardo o di colpirti con una parola, di spingerti fuori dalla zona di comfort per esplorare territori nuovi. Nel film di Wenders abbiamo ascoltato l’ammirazione da parte dei danzatori intervistati, ma ce ne sono altri che hanno lasciato la compagnia in una profondo stato di stress psicologico. Chi è rimasto lo ha fatto confla consapevolezza che in quella produzione si stava scrivendo la storia della danza.
Oggi i danzatori chiedono che tutti coloro che mostrano comportamenti prevaricanti vengano fermati, e se accadrà davvero, questo avrà certamente un impatto nella produzione artistica.
In che modo?
Solo chi vivrà saprà.