Lia Courrier: “La perfezione, croce e delizia della nostra vita con la danza”

di Lia Courrier
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Qualche articolo fa mi ero ripromessa di affrontare il tema della perfezione, di questo concetto che è allo stesso tempo la benzina per la ricerca quotidiana, ma anche motivo di grande afflizione, croce e delizia della nostra vita con la danza, insomma.

Il dizionario alla voce ‘perfezione’ dice: “il grado qualitativo più elevato, tale da escludere qualsiasi difetto e spesso identificabile con l’assolutezza o la massima compiutezza”. Si tratta di una meta ambiziosa a cui anelare, persino arrogante, e se vogliamo considerarla così, separata da qualsiasi contesto, la vedo quasi come una qualità che non appartiene neanche all’umano ma all’assoluto, appunto, al divino.

Una divinità può essere considerata perfetta, e infatti molto spesso il termine stesso diventa un aggettivo per definire un artista sopraffino, di quelli dalla rara preziosità, dal grande carisma e presenza, al punto da sembrare una creatura ultraterrena. Si parla di danzatori entrati nella leggenda, che provocano nello spettatore forti emozioni, passioni, perdita dei sensi, almeno stando alle cronache delle esibizioni di Vaslav Nijinsky, ad esempio.

Ma cosa si intende qui per perfezione? Stiamo parlando di tecnica? Di linee? No, qui si parla dell’impatto che un artista ha sul pubblico, che è dato da un complesso insieme di caratteristiche che hanno a che fare certamente con tutto ciò che ha imparato, dalla padronanza del movimento, dalla sua capacità di interpretare, ma anche da molte altre insondabili e misteriose energie invisibili, che alcune persone possiedono per nascita, per le esperienze che hanno vissuto o gli incontri che hanno fatto. Cosa vuol dire esattamente ‘perfezione’? Cos’è questa idea chimerica e astratta che molte volte sento nominare dai miei allievi?

Cosa intendono quando mi parlano dei danzatori definendoli ‘perfetti’?

O quando si affliggono perché non si sentono ‘perfetti’?

Personalmente questa idea fa emergere solo ansia, perché crea delle aspettative e mi mette in confronto con la biologia e l’arte di altre persone, che certamente possono essere delle ispirazioni ma non un modello a cui aderire, perché nell’arte non dovrebbe neanche esistere, a mio parere, l’idea stessa di aderire a dei modelli, quanto più un movimento che spinga ogni artista a dare il meglio, a sondare ogni sfumatura del suo essere danzante, ogni aspetto, da quello più fisico e grossolano della mera esecuzione tecnica, a quelli più sottili che hanno a che fare con la maturità, la padronanza, il coraggio e altre mille qualità che un danzatore deve cercare di sviluppare per essere un artista.

L’idea della perfezione è una trappola dolcissima e sottile, che si trova sulla superficie delle cose, bisogna andare più in profondità per potersi liberare di questa idea infantile e abbracciare la realtà, che di perfetto non ha proprio nulla. Anzi, se proprio vogliamo dirla tutta, l’unico modo per essere perfetti è accogliere l’imperfezione, la crepa, la zona d’ombra, ossia tutto ciò che ci rende ciò che siamo, che crea contrasto, tridimensionalità in qualcosa che altrimenti sarebbe piatta, non umana. Cercare la perfezione per i miei allievi, probabilmente, ha più a che fare con i video e le foto che girano ovunque in rete, dove le star del balletto mostrano capacità notevoli di girare, saltare, estendere gli arti in ogni direzione, controllare il movimento con estrema precisione, ma questo ideale puramente estetico di perfezione, che non tiene conto di tutto il resto di cui abbiamo appena parlato, vuol dire chiudersi dentro ad una gabbia di frustrazione, perché non si tiene conto del contesto, ossia della propria genetica, delle proporzioni del corpo, della qualità delle articolazioni, del talento che ognuno di noi ha (oppure no), e di altri mille fattori, che però rappresentano esattamente ciò che siamo. È dannatamente importante guardare dentro a ciò che siamo perché è proprio da quei semi che possiamo lasciar emergere la nostra ragione danzante, che probabilmente non sarà perfetta (come non lo è neanche quella delle più grandi stelle della danza, non in questa sterile accezione), ma sarà autentica, e questo è ciò che conta.

Chi sei tu? Chiedeva il Brucaliffo ad Alice, che avendo cambiato statura e forma diverse volte in quel giorno, non sa cosa rispondere, si sente confusa. Il Brucaliffo allora le chiede ancora: “cosa significa questa frase? Spiega”. Alice prova a spiegargli che quando anche lui diventerà farfalla, stenterà a riconoscersi nella nuova forma, e sarà confuso quanto lei.

Ma il Brucaliffo le chiede ancora: “chi sei tu?”

Chi sei tu ora? Chi sei tu, senza confrontarti con qualcun altro?
Ecco, questa è la domanda che dovremmo sempre tenere a mente.
Chi sono? Nel tentativo di rispondere, giorno dopo giorno, potremo andare oltre l’idea semplicistica di una perfezione che viene ‘applicata’ dall’esterno, colta da un modello, ma questo concetto, integrato nel contesto che mi appartiene, diventerà un modo per descrivere la versione migliore di me, il grado più elevato possibile del mio potenziale, una qualità che include anche l’inesattezza, l’indecisione, la vulnerabilità, e tutte le possibili sfumature dell’umano, che fanno di un artista un canale di trasmissione efficace e -ancora una volta uso questa parola- autentico.

Persino al voce di Maria Callas, che ancora oggi incanta e sopravvive alla donna a cui è appartenuta e che ci ha lasciati ormai da diversi decenni, non è considerata una voce che corrisponde ai canoni della lirica. Nureyev diceva di sé che le sue gambe erano troppo corte. È noto che Michelangelo distrusse alcune sue opere, non considerate adeguate ai suoi standard.

Ancora una volta: sai dirmi cos’è per te la perfezione?

Abbiamo bisogno di inseguirla? È davvero una qualità necessaria? Raggiungibile?

Chi sei tu?

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