Lia Courrier: “Immaginate un mondo senza danza..”

di Lia Courrier
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Immaginate un mondo senza danza.

Un mondo in cui ai concerti si sta tutti fermi, senza che nessuno senta la necessità di muoversi. Il pubblico assiste dagli spalti con la presenza dell’esercito di terracotta di Xi’an, mentre la band sul palco muove solo lo stretto necessario per poter suonare.

Immaginate i videoclip delle icone pop, senza le scene in cui si vede gente che balla, che trasmettono quel senso di agilità, leggerezza e dinamismo ad esaltare la musica e il testo della canzone. Provate a visualizzare Bruno Mars (non so voi, ma appena ascolto la sua musica il mio corpo comincia a muoversi da solo) in posa statica davanti al microfono che muove a malapena la bocca per emettere i suoni.

Immaginate l’Africa senza le sue danze popolari, a piedi nudi sulla polvere color ocra, battendo ritmicamente i piedi, roteando il bacino e compiendo dei salti sorprendenti per celebrare l’antico legame che gli esseri umani hanno con Madre Terra. Provate a pensare a cosa sarebbe il mondo senza quel patrimonio, che ci ha insegnato cosa significa incarnarsi.

Immaginate l’India senza il Bharata Natyam e tutte le altre forme meravigliose di danza classica indiana, che portano il corpo nel racconto della relazione ancestrale degli esseri umani con il cielo, che esiste fuori di noi ma anche dentro, con tutte le divinità che vi risiedono, la ciclicità degli universi e la magia del mistero che dimora in noi. Provate a pensare a cosa sarebbe il mondo senza quel patrimonio, che ci ha insegnato cos’è la spiritualità.

Immaginate l’Argentina senza il tango, che è stato definito “un pensiero triste che si danza”, proprio a significare l’esistenza di emozioni che non possono essere espresse con le parole, per questo interviene la magia della danza ad astrarre e portare tutto ad un livello che rende possibile raccontare con precisione quelle emozioni, senza usare le parole, che spesso banalizzano tutto. Provate a pensare a cosa sarebbe il mondo senza quel patrimonio, che ci ha insegnato cos’è la melanconia.

Immaginate gli Stati Uniti senza la cultura hip hop, strumento potentissimo nonché meraviglioso esempio di canalizzazione dell’energia distruttiva in un linguaggio espressivo che ha segnato un’epoca. Cosa avrebbero potuto fare quei ragazzi se non avessero sentito la spinta di danzare, e di sfidarsi usando, al posto delle armi, i passi di danza? Provate a pensare a cosa sarebbe il mondo senza quel patrimonio, che ci ha insegnato cos’è la rabbia.

Adesso immaginate un mondo senza Billy Elliott, senza Leroy Johnson, senza Vicky Page.

Un mondo senza Rudy, senza Micha, senza Nela.

Immaginate una stagione teatrale senza una programmazione di ball…

Oh. Mmmm.

Scusate. Questo non abbiamo bisogno di immaginarlo, perché nel nostro Paese è realtà.

I corpi di ballo stanno scomparendo e a nessuno pare freghi nulla.

Dalla politica non mi aspetto di certo attenzione su questo tasto, visto che l’Italia sta vivendo una fase di immobilismo totale da ormai decenni. Il progresso e la ricerca non hanno fatto un solo passo avanti, in nessun settore, e la cultura (di cui, vorrei ricordarlo siamo i principali detentori per storia, numero di opere, edifici. In Europa ma anche a livello mondiale) beh, credo che la cultura sia in fondo alla lista degli italiani in questo momento, altrimenti non ci ritroveremo con la classe politica che abbiamo, regolarmente eletta. Ricordo con nostalgia quando sulla scena politica c’era gente come Giulio Carlo Argan, mentre oggi abbiamo ministri che sono a malapena diplomati, persone che nella maggior parte dei casi non sono in grado neanche di scrivere correttamente una frase in italiano.

Però anche dall’altra parte, dagli addetti ai lavori, arrivano solo latrati.

Sporadicamente in qualcuno si accende un senso di riscatto, allora si legge un comunicato, oppure si scrive un appello. La lamentela perenne pare sia la formula più diffusa in questo genere di esternazioni, senza mai proporre nulla e soprattutto senza mai volersi impegnare sul lungo termine. Si tratta di sfoghi catartici che hanno un seguito della durata di qualche giorno, ma poi tutto sfuma in un nulla di fatto, per mancanza di lungimiranza oppure a seguito dell’ottenimento di piccoli privilegi (per piccoli uomini, aggiungerei).

La cosa che mi sorprende di più, in tutto quello che ho sentito finora, è il totale scollamento dal tessuto sociale, una lontananza totale dalla realtà, non solo del Paese ma anche del mondo della danza in Italia in generale, in cui esistono delle criticità che a me sembrano enormi al punto di occupare tutto il campo visivo, ma che i più stentano persino a vedere.

Le richieste sollevate in queste occasioni sono sempre infantili e non risolutive: chi chiede più date in cartellone, chi dei contratti da stabili, chi vuole che vengano assegnate alla danza più risorse economiche. Si guarda al proprio tassellino senza avere la benché minima idea di quali e quante energie si muovano attorno e al di sopra. Chi di noi ha avuto mai a che fare con le istituzioni per ottenere qualcosa sa che bisogna continuare a lavorare sui fianchi dei potenti, essere presenti, stargli col fiato sul collo, portare idee e proposte ai tavoli di discussione, armarsi di pazienza perché si fanno spesso due passi avanti e quattro indietro. La perseveranza paga, lo sfogo proprio per niente. Può aiutare a metterci una pezza sopra, ma i grandi cambiamenti (e noi avremmo bisogno proprio di quello) non si fanno così.

Abbiamo bisogno di far convogliare l’energia individuale in un progetto comune, trasformare il malcontento in azione, senza paura che il cambiamento possa far perdere i privilegi personali, perché a questo tipo di processo si partecipa per la comunità attuale e per quella che verrà dopo e non per i propri interessi. Ma questo è impossibile da far capire ad una categoria che spesso si infila in sala prove senza neanche aver firmato prima un contratto, che accetta retribuzioni da fame, quando ci sono, e che svende la propria professionalità a chiunque gli faccia sentire il profumo del palcoscenico.

Impossibile da far capire ai danzatori che spesso, dall’alto della loro presunta posizione di superiorità intellettuale, si arrabbiano con la società che li rigetta, quando sono proprio loro i primi a non considerarsi parte di essa.

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