Lia Courrier: “Il panorama è desolante: persone che si formano per una professione, che non è neanche riconosciuta in quanto tale”.

di Lia Courrier
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Lavorando come formatrice da ormai vent’anni, ho avuto il privilegio di veder passare davanti a me tantissimi giovani danzatori di talento. La maggior parte di loro, tra quelli che hanno deciso di fare della danza il proprio mestiere, non si trovano più in Italia, ma in giro per l’Europa, se non sparsi per i cinque continenti, poiché qui non esiste uno straccio di possibilità. Noi insegnanti abbiamo un macigno nel cuore quando vediamo i nostri allievi crescere, con la certezza che dovranno per forza andarsene via per dare un senso a tutto questo impegno.

Tante volte ho letto o ascoltato i coreografi e le star del balletto nazionale ripetere che servono più soldi alla cultura, raccogliendo sempre consensi e plausi trasversali da parte di tutti, e questo in parte corrisponde a verità: non esiste un vero progetto di sostegno economico alla cultura della danza in questo Paese, ma penso che il vero problema stia a monte, e riguardi il fatto che sul territorio italiano non esista una formazione pubblica che prepari alla professione della danza.

Come abbiamo detto tante volte, l’unico titolo riconosciuto viene rilasciato dall’Accademia Nazionale di Roma, che si propone comunque per formare insegnanti e non danzatori. Esiste un buco enorme da parte dello Stato, a livello ministeriale, perché di certo le formazioni professionali non mancano sul territorio, ma sono tutte private, nessuna statale. Questo vuol dire innanzitutto che la preparazione per un mestiere di danza ha costi elevati, che solo alcune fasce di reddito possono permettersi, e inoltre -poiché non si tratta di scuola pubblica- le rate che vengono pagate non sono neanche detraibili dalle tasse.

Esiste poi anche un problema relativo alla validità della formazione privata che, non essendo vincolata a linee guida e parametri condivisi e scritti nero su bianco, come accade ad esempio per i programmi dei conservatori, rimane sempre a discrezione (e competenza) della direzione artistica e didattica, nonché alla capacità dei giovani allievi (e rispettivi genitori) di distinguere un progetto valido da uno che non lo è. Quest’ultimo punto è quello più delicato, perché se è vero che per il balletto esistono delle realtà di chiara fama, come l’Accademia del Teatro alla Scala, il cui nome è già garanzia di una certa qualità, per la danza contemporanea ormai esistono formazioni ovunque, con frequenze varie che vanno dall’impegno quotidiano su un progetto pluriennale, ad un weekend al mese.

È davvero curiosa la presenza di un numero sempre crescente di formazioni professionali dedicate alla danza contemporanea, quella stessa danza che è praticamente inesistente in ogni cartellone teatrale del paese, quella danza che viene tacciata (spesso da chi non l’ha mai vista neanche in video) come noiosa, concettuale, incomprensibile, per addetti ai lavori, saccente. Proprio quella, pare, è la danza che tutti vogliono studiare.

Fabbriche di futuri disoccupati, nella  stragrande maggioranza dei casi.

Mi dispiace molto scrivere questa cosa, lo faccio davvero con la pena nel cuore, anche perché io stessa sono nel direttivo di uno di questi progetti, una realtà che abbiamo costruito con tanto impegno, consapevolezza e competenze, in cui credo molto e che negli anni ha anche dato notevoli risultati nell’aiutare gli allievi a trovare una collocazione nel mondo della danza di ricerca. Proprio per essere coerenti con la nostra etica professionale, abbiamo scelto di proporci come trampolino per accedere alle formazioni europee, perché dalla nostra esperienza (che quest’anno compie già sette anni) emerge prepotentemente la confluenza di una serie di fattori, alcuni dei quali vorrei esporre in questo numero, che rendono estremamente complesso e difficile formare danzatori pronti per il mercato del lavoro internazionale. Non esistono le premesse culturali e le conoscenze tecniche per poterlo fare, tenendo conto delle ultime tendenze e i nuovi approcci al movimento che si sono sviluppati negli ultimi quindici anni e che qui ancora non sono arrivati (in Italia pare sia ancora una novità la release technique, che oggi è considerata superata in tutte le formazioni più all’avanguardia). Anche qualora la persona formata avesse talento e una ottima competenza artistica e creativa, non esiste alcun tessuto sociale pronto ad accogliere queste persone, né tanto meno una politica che promuova l’esistenza di un mercato del lavoro.

Il danzatore italiano – a parte qualche caso di interpreti o danzatori che effettivamente riescono ad avere una certa continuità sulle scene-  chiama lavoro una condizione nella quale se va bene si fanno due spettacoli al mese, spesso con prove non pagate e condizioni contrattuali ai limiti della legalità, e della decenza, aggiungerei. Per non parlare quando la prestazione viene pretesa a titolo gratuito in cambio di chissà cosa. Due spettacoli al mese vuol dire 24 in un anno: non è da considerarsi un lavoro, ma non è neanche un hobby, perché le persone coinvolte hanno ricevuto una preparazione professionale, hanno studiato per anni, ma a quel punto per pagarsi da vivere dovranno per forza fare altri lavori. Qualcuno cerca di fare un lavoro affine, che abbia a che fare col corpo, come istruttore di pilates o gyrotonic, ad esempio, altri insegnano danza (magari senza neanche avere una vera passione per l’insegnamento), ma molti dovranno proprio rivolgersi ad altro, in attesa dell’occasione giusta.

Ecco come può  capitare di vedere appesa la propria vita al palo, perché se si rimane in questo paese le occasioni non arriveranno mai. Le occasioni si vanno a cercare, ma al di là dei confini.

Questa è la trappola che tiene i danzatori italiani lontani dalla possibilità di mantenere il corpo attivo e reattivo ogni giorno, di sperimentarsi, di ricercare, di fare esperienze, di essere a contatto con un fermento, uno scambio, una condivisione all’interno della comunità dei lavoratori della danza, che è l’humus fondamentale nel quale le cose accadono e le relazioni  e i contatti di lavoro nascono.

Il panorama è desolante: persone che si formano per una professione, che non è neanche riconosciuta in quanto tale. Questo perché non esistono scuole pubbliche per poterlo fare, strutture nelle quali anche chi non ha un alto reddito potrebbe accedere. La formazione è alla base della crescita di un paese e il fatto che l’Italia non preveda dei percorsi formativi per chi danza, la dice lunga su come la danza venga considerata. All’estero esistono sia le costosissime scuole private, ma anche i conservatori, nei quali gli allievi possono ricevere non solo una formazione di livello, ma anche un titolo riconosciuto dallo Stato.

Credo che da nessuna parte nel mondo l’impegno che la danza richiede sia retribuito come dovrebbe, purtroppo, a meno che tu non sia una star internazionale. Però almeno i danzatori vengono riconosciuti in quanto lavoratori, inseriti nel contesto sociale e non fantasmi evanescenti.

Qui sta la differenza enorme.

Nel sentirsi parte di qualcosa.

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