Lia Courrier: “Il mio primo tutù”

di Lia Courrier
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Il primo costume che io abbia mai indossato su un palcoscenico, in occasione del saggio di fine anno, era un tutù bianco da bambina con una gonna di tulle che arrivava a metà polpaccio e lo scollo rotondo contornato da un piccolo volant di pizzo. In un eccesso di autostima, ma solo perché sono passati così tanti anni che il ricordo di me bambina mi intenerisce molto, mi sento di poterlo ammettere: credo proprio fossi assolutamente, irresistibilmente adorabile in quella occasione. Per usare un intraducibile vocabolo giapponese: kawaii.

Guardavo però i costumi delle ragazze più grandi con bramosia, perché nel mio immaginario il tutù “vero” era solo quello con la ruota rigida, che lascia libere le gambe e il corpetto che segna la vita e scopre la schiena. Al confronto di quei bellissimi costumi, il mio mi sembrava così anonimo e banale, che non vedevo l’ora di essere abbastanza grande da poterne indossare uno anche io.

Non so quante bambine oggi seguono le lezioni di danza sognando di fare le ballerine classiche, come era per me e per le mie compagne di corso, alcune delle quali oggi sono mie colleghe. Forse il balletto classico è espressione di un certo romanticismo e di una visione idealizzata della femminilità e dell’amore, che oggi non ci appartiene più, neanche nell’epoca candida dell’infanzia. La società è cambiata, le donne scelgono di vivere il loro ruolo partendo da diversi presupposti, un differente immaginario, una femminilità più libera e forse a tratti persino aggressiva.

Le ragazze della mia generazione, tanto per dire, sono cresciute guardando cartoni animati come “Candy Candy”, la crocerossina sempre pronta a mettere sé stessa in fondo alla lista delle priorità; oppure “Lady Oscar”, una donna che per realizzarsi si finge uomo, divenendo addirittura Comandante delle Guardie Imperiali e mettendo la propria incolumità a repentaglio per difendere la Regina Maria Antonietta. Per non parlare della corrente masochista, con protagoniste come Mila Hazuki, campionessa di pallavolo, che per irrobustirsi le braccia parava le palle a velocità supersonica con catene avvolte attorno ai polsi. Infine Maya Kitajima, un manga in cui una giovane aspirante attrice, per interpretare il ruolo di una non vedente, si costringe ad un lungo ritiro al buio che quasi la porta alla follia. Siamo state ispirate dalle fanatiche dello struggimento, vestali del sacrificio, atlete della sofferenza in ogni sua forma, non stupisce che in quegli anni i corsi di balletto fossero pieni, perché lo spirito di dedizione e abnegazione che il balletto richiede rispecchia alla perfezione quella cultura, il tutto condito dalla splendida aura che solo un cuore che si è speso totalmente per una causa altissima può emanare. Oggi tutto questo è obsoleto, superato, in parte dimenticato: nella generazione dei Pokemon e di Dragon Ball, non c’è più spazio per i sentimentalismi e per lo struggimento. Oggi bisogna “spaccare”, per usare un termine rubato al gergo giovanile.

Tuttavia, al di là dei trascorsi formativi di derivazione nipponica, secondo me ogni bambina che oggi studia danza classica con il desiderio di diventare ballerina, comincia a sognare proprio guardando un tutù. Il tutù è un feticcio, apoteosi di grazia e di eleganza antica, che non si espone troppo, un tripudio di femminilità divina e pura, virginale e irraggiungibile. Le ballerine, esili come steli, indossano queste nuvole di tulle che le fanno somigliare a dei fiori d’acciaio che, a prescindere dal loro aspetto delicato e vulnerabile, dimostrano invece grande forza e tenacia.

Non ho avuto tante occasioni di indossare questi meravigliosi abiti, ma quando è accaduto, molti anni più tardi quella prima esperienza, ho percepito come il costume possa farti cambiare la percezione che hai di te stessa. Con indosso il tutù avevo la strana sensazione di essermi come trasformata, trascesa in una forma non più terrena ma soprannaturale, luminosa e splendida. Il tutù avvolge la figura e la valorizza, mettendo in evidenza quanto di più bello nel corpo femminile: il collo, le spalle e le gambe. Quando sei dentro ad un tutù cambia il tuo modo di porti nei confronti del mondo, è come se ti sollevassi da terra, comprendi l’essenza delle origini regali di questo linguaggio coreutico. Sebbene io non ami le monarchie, in qualunque civiltà  e modalità queste si presentino o esistano ancora nel mondo (il che mi pare già un attacco ai diritti fondamentali dell’uomo, perché nessuno dovrebbe sentirsi ‘suddito’ di chicchessia), devo ammettere che con indosso un tutù ho provato sulla la pelle l’ebbrezza di sentirmi una vera regina. Il fascino -del tutto indiscreto- e la maestosità di Re Sole, catturati in ogni piega e passamaneria, ogni lustrino ed ogni cristallo che le sarte, con sapienza e precisione, cuciono su questi incredibili abiti. Anche con il più semplice dei diademi, appoggiato sulla testa, ti senti illuminata da un attributo regale. Una lussuria sottile e profonda che sarebbe meglio mostrare con parsimonia, vestita di modestia, per non peccare mortalmente di superbia.

Il mio percorso mi ha poi portato altrove, nell’ambito della danza contemporanea, dove si usa costumi informali, che consentano al corpo di muoversi su più piani e livelli, cosa che non accade nel balletto, però mi piacerebbe molto rivolgere una domanda alle lettrici ballerine classiche professioniste, che indossano ogni anno decine di tutù diversi: questa sensazione persiste ogni volta oppure prima o poi ci si abitua all’ “effetto tutù”?

Inviatemi una foto con indosso il vostro preferito!

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