Lia Courrier: “Effetti collaterali dell’idolatria verso gli artisti”

di Lia Courrier
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La socio cultura che abbiamo costruito tutti insieme nel tempo, coscientemente o meno, ha portato ad una struttura gerarchica di forma piramidale, con il vertice inesorabilmente rivolto verso l’alto. Esattamente come la vetta di una montagna, questo vertice offre spazio a pochissime persone, ovvero coloro che – con grandi , solitari ed eroici sforzi – sono riuscite a scalare gli impervi pendii, sopravvivendo alle tempeste e schivando le valanghe lungo il percorso.

La società occidentale, profondamente influenzata dal modello statunitense (ossia conquistatore e colonialista), mitizza l’eroe, venera chi riesce ad emergere dalla massa, staccandosi di molte lunghezze dagli altri, una visione dell’esistenza drammaticamente imperniata sull’affermazione dell’individuo che, una volta assurto all’attenzione pubblica, diviene una sorta di divinità intoccabile e inattaccabile.

Questo processo viene applicato in ogni ambito dell’esistenza, dalla politica alla scienza, dalla moda allo sport, dalla scuola al mondo del lavoro. Nel mondo dell’arte e dello spettacolo dal vivo, con la complicità dei media e della critica, questa tendenza ha il potere di catalizzare tutta l’attenzione su un solo personaggio per un periodo di tempo più o meno lungo e queste presenze possono divenire ingombranti, rivelandosi a volte un peso difficile da gestire per la persona stessa, innanzitutto, gettata in pasto agli occhi bramosi del pubblico, ma anche per l’arte e la sua fruizione, dal momento che tutte le altre personalità presenti sulla vetta in quel momento vengono in qualche modo oscurate dall’ombra del gigante di turno senza ricevere i riconoscimenti che meriterebbero.

Gli artisti sono la manifestazione più lampante di quanto ogni essere umano sia unico, nel corpo fisico così come nella psiche e nello spirito. Nel balletto classico questo aspetto emerge prepotentemente con grazia e determinazione, poiché i ruoli e le coreografie sono da secoli pressoché le stesse (a parte qualche raro caso) ma le interpretazioni invece sono restituite in modo così genuinamente, autenticamente personale attraverso l’esperienza di meravigliosi artisti del presente o del passato, da lasciare a volte sorpresi, altre senza fiato. Focalizzare tutta l’attenzione su un solo artista vuol dire inaridire la propria intelligenza critica (qui uso questa parola per indicare la capacità intellettiva di leggere un’opera o un artista), è come scegliere di mangiare per un lungo periodo di tempo un solo alimento, eliminando tutti gli altri: sarebbe inevitabile sviluppare nel tempo delle carenze nutrizionali importanti e perdita delle facoltà.

La nostra mente funziona allo stesso modo, bisogna provare a introdurre quanti più alimenti possibile, scegliendo ovviamente quelli che vanno bene per noi e scartando quelli che non consideriamo sufficientemente nutrienti se non addirittura irritanti o tossici, fino a trovare un assortimento perfetto e adeguatamente variegato, preferibilmente di stagione, ossia adatto allo stadio di maturità raggiunto.

Ogni grande interprete porta il suo contributo, unico e inimitabile, alla danza, non ha senso idolatrarne uno sentenziando che tutti gli altri non possano essere alla sua altezza.

Guardando anche solo al repertorio ballettistico dell’800 e della prima metà del ‘900, omettendo tutte le creazioni successive, possiamo notare come le sequenze create dai coreografi, le storie raccontate dai personaggi, abbiano colori molto differenti che possono risuonare particolarmente con la personalità dell’artista che la interpreta. Ogni ballerino sa che alcuni ruoli si sposano meglio di altri con la propria cifra artistica e umana, è difficile mettere la corona di alloro sulla testa di uno soltanto.

Ovviamente è vitale e formativo avere un mito, un artista particolarmente ispirante con cui risuoniamo particolarmente, che ci dona un appagamento estetico o musicale nel guardarlo. Quello che trovo un po’ controproducente è l’idolatria, anche perché a portare in auge un ballerino piuttosto che un altro è spesso la critica, altre volte gli appoggi politici, nonché -ai tempi odierni – concorre non poco anche la sua voglia di apparire, la sua volontà di esporsi mediaticamente per scalare questa montagna usando ogni mezzo disponibile.

Non sempre sono davvero i migliori ad emergere, anche per scelta personale.
Esiste un esercito di grandissimi interpreti che, senza farsi troppo notare, se non dal pubblico in teatro intendo, si dedicano al proprio lavoro evitando oculatamente di inondare i propri social di foto o video, mostrando riluttanza ad apparire in televisione, rimanendo un po’ nell’ombra, preferendo proteggere il proprio lavoro da questa lente deformante che è l’iper-esposizione mediatica. Deformante per chi guarda, che viene condizionato a sviluppare una preferenza piuttosto che un’altra basandosi su ciò che gli viene proposto (ricezione passiva delle informazioni); deformante anche per l’artista stesso, alla mercé dei consensi appassionati degli estimatori così come a quelli acidi e taglienti degli odiatori seriali da tastiera, che sottraggono energia e tempo a ciò che per un artista conta davvero.

La rosa dei miei preferiti è da sempre composta da un assortimento davvero molto variegato di artisti, dai più aderenti alla tradizione, che amo proprio per questa loro caratteristica di grande eleganza e purezza, come Margot Fontayne, Ulyana Lopatkina, Noelle Pontois, Darcey Bussel, Natalia Makarova, Aurelie Dupont, Eric Bruhn, Leonid Sarafanov, e la lista potrebbe continuare; a quelli che invece se ne sono distaccati e si sono imposti per innovazione, seppur rimanendo nell’universo del balletto classico con grande coerenza, come Rudolf Nureyev, Mikhail Baryshnikov, Sylvie Guillem, Patrick Dupond, Natalia Osipova e molti altri che ho amato proprio per questa loro spinta in avanti, il senso del rischio, l’istinto verso qualcosa che non era mai stato fatto prima, una certa “selvaggitudine”, mettendo in luce nuovi aspetti del già noto, con coraggio e determinazione. Non è per me possibile sceglierne uno tra tutti, sono come i colori sulla tavolozza di un pittore, il quadro che ho nella mia testa e nel mio cuore non potrebbe essere dipinto con efficacia se mancasse anche una sola di  queste tinte preziose e brillanti.

Per lo stesso motivo trovo limitante sentenziare che una Scuola sia la migliore, gettando fango sulle altre, come spesso ho sentito da persone che credono davvero nell’illusione che possa esistere una sola verità assoluta sul piano terreno. La danza è una, si è manifestata attraverso una stratificazione di culture, epoche e visioni sul mondo, oltre che di aspetti strettamente legati alla tecnica e all’esecuzione dei passi, alla nomenclatura. La scuola russa, quella francese, americana, inglese, persino la quasi estinta tecnica Cecchetti, meravigliosa quanto difficile: ognuna di queste ha qualcosa da dire e i risultati della loro validità si vedono sui palcoscenici del mondo. Ovviamente è lecito che ognuno scelga di attenersi agli insegnamenti della scuola che più si adatta alla propria fisicità e al proprio gusto, questo rientra però in una questione del tutto personale che non può essere in alcun modo estesa a tutti.

Alcuni dei più grandi artisti russi che ho citato, fuggiti dal regime e rifugiati in occidente, ad esempio, hanno avuto l’intelligenza e l’umiltà di provare a mettersi addosso i principi di altre Scuole, e questo ha ulteriormente valorizzato il loro già indiscusso talento con i risultati eccezionali che hanno fatto di loro delle leggende.

L’arte dovrebbe aprire la mente, stimolare la curiosità a provare sempre cose nuove, a non fermarsi al già conosciuto, a non lasciarsi conformare, mantenere un certo dinamismo di pensiero, spingersi sempre oltre, alla ricerca di nuovi stimoli, approfondire le percezioni, osservare da punti di vista inediti. Arroccarsi nelle proprie idee e pensare che chiunque la pensi in modo diverso sbagli, o non sia professionalmente adeguato, è un’afflizione mentale per un artista, la cui creatività dovrebbe andare sempre oltre alle tecniche (ovviamente dopo averle apprese) e i tecnicismi per asservirsi al messaggio da veicolare. Il mio pensiero è che forse, quando questa chiusura mentale si manifesta, è solo figlia di insicurezze interiori che, per fortuna, possono essere risolte imparando ad osservarsi con maggiore attenzione e onestà.

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