Ogni giorno noi insegnanti di danza ci impegniamo a costruire sequenze ed esercizi per i nostri studenti di ogni età e livello. Nel compiere questo importante lavoro, lontano dagli occhi degli allievi, cerchiamo di soddisfare diversi tipi di parametri (ognuno ha la propria scala di preferenze) per arrivare in sala pronti a trasmettere queste piccole coreografie create per l’apprendimento. Conosco diversi colleghi che non preparano le lezioni e si affidano al sentire del momento, personalmente credo che questo approccio funzioni molto bene per una classe diretta a professionisti, ma che possa rivelarsi poco efficace quando ci si occupa di formazione e didattica, ambito in cui la progettazione è la chiave per un costante e consapevole progresso. È mia abitudine mantenere la stessa classe per diverse settimane, per dare modo di andare in profondità, per questo è importante che io per prima sia sicura della proposta che voglio dare loro.
Tra i principali parametri a cui penso quando progetto il lavoro, al primo posto c’è sicuramente la pregnanza didattica. Ogni nuova classe deve aggiungere qualche mattoncino in più rispetto alla precedente. Questo può consistere in un nuovo elemento tecnico da studiare, magari la prima volta eseguito separatamente da un contesto di costruzione coreografica, per comprenderlo meglio prima di legarlo ad altri passi; oppure può essere l’evoluzione di un elemento presente nel materiale precedente. L’importante è che l’asticella venga costantemente alzata: a volte di molto altre di poco, a volte riguarda la tecnica, altre la velocità, la musica, dipende. Ogni nuova piccola o grande sfida mantiene sempre vigile l’attenzione, non lascia spazio alla routine e dona all’allievo la chiara percezione di stare su un cammino.
Al secondo posto dei parametri onnipresenti in ogni sequenza metterei la musicalità. Non amo molto la monotonia, lo ammetto, la musica è un territorio in cui adoro sguazzare, giocare e divertirmi. Non sto parlando della musica suonata dallo strumento che accompagna la lezione ma della musica emessa dal corpo in movimento. Cerco sempre di inserire un piccolo guizzo musicale, un cambio di ritmo o di velocità, un dettaglio che possa sviluppare prontezza, capacità di modulare l’energia, controllo, puntualità e soprattutto precisione. O si danza in musica o meglio non danzare, per quanto mi riguarda.
Un dettaglio formidabile per la presenza musicale è quello di inserire delle pause all’interno delle sequenze.
Normalmente gli allievi detestano le pause, sembrano soffrire di una forma particolarmente aggressiva di horror vacui, che si manifesta in un’irresistibile voglia di muoversi di continuo, senza peraltro sapere sempre con certezza dove andare e cosa fare, l’importante è muoversi. Refrattari alla pausa come l’olio con l’acqua, li vedo lottare in quella manciata di istanti che con tutta probabilità a loro sembreranno mesi, se non anni, con i motori accesi a sgasare sulla linea di partenza pronti a partire a stecca e la stessa fregola dell’adorabile Bianconiglio del racconto di Carroll. Dove devi correre, Bianconiglio? Fermati un attimo, calmati, beviti una camomilla anziché farti servire té dal Cappellaio.
Saper stare a proprio agio in una pausa, mantenendo viva e vitale la posa, con intenzione e senso estetico, è un ottimo strumento per sviluppare la propria presenza e dissolvere questa idea malsana che danzare voglia dire agitarsi. La pausa è un balsamo per i sensi, la sospensione tra un battito e l’altro del cuore, un modo per magnetizzare la propria presenza e far sorgere un senso di trepidante attesa nello spettatore. Ovviamente esistono occasioni perfette anche per il movimento frenetico, dipende da cosa si vuole raccontare, bisogna essere consapevoli di queste qualità, esperirle nel corpo, per poterle poi usare con cognizione di causa.
Al terzo posto dei parametri, metterei quel filo che lega il primo e l’ultimo esercizio della classe, come se le sequenze fossero le perle infilate di una collana. Mi piace pensare alla lezione come ad una progressione in cui ogni singolo elemento prepara a quello successivo, normalmente organizzo lezioni tematiche su cui cerco di inserire un lavoro completo sul corpo ma con delle attenzioni particolari: la qualità del rimbalzo del salto, il controllo della rotazione esterna delle gambe, la preziosità del basso gamba e del piede. Di conseguenza scelgo movimenti specifici per creare memorie nel corpo, consapevolezze propriocettive se non addirittura neuromuscolari, costruire abitudini che possano essere facilmente ritrovate come naturali automatismi grazie all’intelligenza somatica, in grado di coordinare le parti del corpo anche quando il gesto tecnico richiede una velocità tale da non potersi affidare alla lenta elaborazione neocorticale.
Questo è il parametro che più ho faticato a sviluppare nel mio lavoro, uno sforzo che però ha dato frutti importanti e mi ha fatto capire quanto è importante per un maestro non perdere mai di vista il disegno più grande e gli obiettivi a lungo termine. Gli allievi vivono pienamente il momento presente ma l’insegnante ha bisogno i proiettarsi su un futuro perfettamente disegnato per loro.
Il quarto parametro che mi viene in mente è lo sviluppo dell’intelligenza spaziale.
Normalmente nei primi anni di studio si prediligono sequenze statiche sul posto, perché il primo lavoro da fare è quello di costruire solide basi nella percezione delle direzioni intrinseche nel corpo, chiarezza nelle forze dinamiche che lo attraversano, forza, tenuta e controllo. Un lavoro imprescindibile se si vuole procedere sul cammino giusto, ma trovo altrettanto importante far sperimentare anche la sensazione di prendere lo spazio, abbracciarlo, spostarlo, deformarlo. La danza non è solo una questione che si consuma nello spazio interno, ha bisogno di trasformare e trascendere anche lo spazio esterno. Il famoso quadrato utilizzato nelle tecniche Vaganova e Cecchetti (vai a sapere poi perché non si sono accordati sul numerare nello stesso modo angoli e fronti, ma lasciamo questo argomento per un’altra occasione) va interiorizzato, digerito, metabolizzato al punto da poterci giocare, divertendosi e sfidandosi.
Al lavoro certosino sui fondamenti della tecnica, che richiede una certa linearità e staticità, mi piace affiancare anche proposte meno ovvie e più sperimentali, per sviluppare chiarezza nella percezione spaziale e nell’utilizzo delle direzioni. Ovviamente questo tipo di proposte manda in cimbali il cervello dei poveri allievi che sembrano aver bisogno di una mappa per orientarsi, ma sul lungo termine questo allenamento dona competenze molto importanti per una danza tridimensionale che abbia il giusto impatto nello spazio.
L’ultimo di questa lista non è proprio un parametro, lo percepisco più come quell’energia che sottende a tutti gli altri, il fuoco che alimenta ogni aspetto menzionato finora. Sto parlando dell’artisticità, quella spezia speciale che ognuno di noi ama mettere dentro alla propria danza, negli anfratti, nelle pieghe della tecnica, per rendere quel movimento qualcosa di unico, che profuma del proprio cuore. Cerco di stimolare gli allievi a curare fin dalla preparazione al primo esercizio questo aspetto, con le indicazioni verbali, invitandoli a danzare “con sentimento” anche gli esercizi più didattici e apparentemente semplici, ricordando continuamente che la danza non consiste in una serie di (seppur bellissime) pose, altrimenti saremmo tuti dei fotomodelli, ma si annida nei passettini “in between”, nelle transizioni, nelle pause o nei movimenti piccoli che, se eseguiti con consapevolezza e presenza, diventano molto più grandi e d’impatto di quelli che per natura sono già di ampio respiro. Invio loro continuamente video di danzatori che considero straordinari non solo per la tecnica ma soprattutto per quel dare un sapore unico e personale al movimento.
A volte gli faccio vedere solo gli ingressi in scena degli artisti, per fargli capire l’importanza di curare ogni dettaglio e riempirlo del proprio mondo, dei contrasti, dei chiaroscuri che fanno parte dell’esperienza umana. Una danza perfetta ma robotica, per quanto impeccabile, manca di calore perché è proprio nell’imperfezione che possiamo riconoscere la nostra condizione umana, nella nota particolare di un colore che spicca in mezzo agli altri che veniamo toccati direttamente al centro del cuore.
Comprendere il valore di questo e riuscire ad applicarlo, a partire dal momento di studio, è ciò che fa la differenza tra un artista e un esecutore.