Lia Courrier: “corsi di formazione che promettono chissà cosa, sfruttando i sogni dei ragazzi”

di Lia Courrier
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Negli ultimi anni, nel panorama allargato delle arti, la danza contemporanea e la performance sono state scelte come strumento prediletto per raccontare la contemporaneità. La centralità del corpo, e il suo verbo universalmente comprensibile, sono certamente le ragioni principali di questo fenomeno, ma consideriamo anche che all’interno dei linguaggi contemporanei legati al movimento, confluiscono anche altre forme espressive, come ad esempio la tecnologia, la videoarte, il teatro, le arti circensi, e questo fa della performance una sorta di ‘linguaggio totale’ che risponde alle necessità di ogni questione drammaturgica, rendendo l’espressione del corpo contemporaneo accessibile a tutti, potente, diretta, capace di astrarre pur rimanendo incarnata.

Questo crescente interessamento verso ciò che fino a qualche decennio fa non destava particolare partecipazione, ma anzi, veniva considerato con un certo snobismo, porta oggi molti giovani danzatori a volersi formare in questa direzione. Già da decenni è iniziato un esodo dall’Italia verso le città europee che ospitano un’Accademia o un centro di sperimentazione del movimento. Personalmente trovo che la danza stia vivendo un momento estremamente eccitante e coinvolgente, ma come spesso accade, quando l’interesse verso qualcosa è in crescita, un nuovo mercato si apre e tutti vogliono entrarci per arraffare la propria parte. Da qui l’incredibile numero di formazioni professionali nate in Italia e dedicate alla danza contemporanea.

Essendo io stessa nel Direttivo di un progetto formativo per la formazione di danzatori contemporanei, cerco di essere sempre informata su tutto ciò che accade sul nostro territorio, e onestamente guardo con molta preoccupazione a questo fenomeno. Solo una piccola parte dei programmi offerti, infatti, si può considerare adeguato al livello europeo, in termini di qualità e di contenuti, nell’offrire agli studenti strumenti utili a formarsi per una professione, o almeno a prepararsi per le audizioni per le scuole estere, che richiedono già un discreto livello per potervi accedere.

Il resto trovo sia un vero guazzabuglio, di lezioni assortite con criteri misteriosi o frutto di un’idea antiquata o totalmente fraintesa della danza contemporanea: un linguaggio che oggi ha assunto una fisionomia molto chiara e riconoscibile, e che richiede una preparazione specifica.
Per guidare un progetto formativo di questo tipo bisogna essere sempre al passo con i cambiamenti che costantemente avvengono; a conoscenza di tutti i nuovi metodi di indagine che i pionieri contemporanei stanno portando avanti, per sviluppare specifiche abilità nei danzatori; di essere aperti e non avere certezze da dare per scontate, poiché la danza sta cambiando la pelle, come fanno i serpenti, per rinascere ad una nuova identità che sia coerente con i tempi che stiamo vivendo, e non è più possibile rimanere ancorati a vecchi dogmi (come quello che vede la danza classica come base imprescindibile per fare ogni cosa: un concetto obsoleto e basato solo sulla non conoscenza). Per muoversi in questo ambito bisogna immergersi nella contemporaneità senza morbosi attaccamenti al passato, perché non tutto quello che è stato utile ieri è fruttuoso anche per i danzatori di oggi.

Al di là dell’ignoranza, che può portare a pensare di poter offrire una formazione in danza contemporanea, solo per aver visto qualche video di Ohad Naharin su YouTube, pensando che sia sufficiente una preparazione di balletto e qualche lezione di danza moderna per poter fare tutto, la cosa che trovo ancora più fastidiosa – se possibile –  riguarda le promesse che vengono fatte nel promuovere questi progetti. Come ho già scritto più volte, sento una forte responsabilità etica nei confronti degli studenti, verso cui bisognerebbe rivolgersi con grande onestà intellettuale. Penso che il ruolo del formatore sia talmente importante (sebbene in Italia gli insegnanti ormai siano una categoria trattata al pari ai dalit indiani), che chi copre questo ruolo dovrebbe sentirsi investito dalla missione di comportarsi come un esempio di rettitudine e purezza di intenti. In ogni occasione. Chi sfrutta i sogni dei ragazzi per accumulare potere, consensi o ricchezza, chi li utilizza per scopi di prestigio o realizzazione personali, per me non è un formatore. Aggiungo anche che, a maggior ragione per chi fa questo mestiere, l’ignoranza e la non conoscenza non sono ammesse come giustificazione per le proprie mancanze. Bisogna essere onesti. E studiare. Non esistono surrogati alla conoscenza, per un insegnante.

Invece è pratica diffusa promettere contratti di lavoro, fare leva sulla presenza della compagnia connessa alla formazione, facendo credere che ci sia automaticamente un passaggio dalla scuola al lavoro; promettere titoli come diplomi o attestati validi per fare non si sa cosa, quando – non mi stancherò mai di dirlo – in Italia lo Stato non riconosce titoli o qualifiche per la danza, a parte l’AND. Attualmente non esiste un limite alle promesse che vengono fatte ai potenziali studenti, tutta energia spesa a lucidare gli specchietti per le allodole, quando spesso sui canali di informazione di queste realtà mancano dati fondamentali come docenti e programma dettagliato.

Le nuove generazioni sembrano ossessionate dal ‘pezzo di carta’, dal riconoscimento. Una delle prime informazioni che ci vengono richieste in sede di candidatura, da parte di allievi e genitori, riguarda proprio il tipo di titolo che rilasciamo. Beh, a noi piacerebbe rispondere che rilasciamo un titolo di laurea, come dovrebbe essere per chi affronta un simile iter formativo, ma purtroppo questa è una domanda che bisognerebbe girare a chi ci governa. La mia generazione non viveva questo tipo di pressione, fare della danza la propria quotidianità era già una condizione soddisfacente. Conosco eccellenti danzatori che non hanno neanche frequentato un’Accademia ma hanno studiato seguendo il proprio istinto e i maestri. Allora si poteva fare anche questo. Oggi invece sembra che il titolo sia una priorità assoluta ed è su questo che principalmente si fa leva sul mercato, in modo disonesto e controproducente, poiché anziché evidenziare un vuoto legislativo da parte di uno Stato che pare non vederci, e dei Ministeri che giocano a scaricabarile, si fa credere alle persone che questi attestati abbiano qualche valore. Ma del resto, se gli insegnanti di danza sono i primi a credere che gli attestati del Coni siano dei titoli di valore, abbiamo già capito in che mani si trova la formazione coreutica italiana.

In questo Ballarò dove vince chi urla più forte, le allodole sono disorientate e alla fine si lasciano attrarre dai riflessi più luminosi, per questo invito tutti coloro che si trovano nel momento di scegliere una formazione, di ponderare, farsi consigliare, di non accontentarsi del primo posto che capita, ma cercare finché non si è trovata la proposta più giusta per il proprio progetto di realizzazione con la danza.

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