L’histoire de Manon: tutto ciò che resta sono solo brandelli di una vita deteriorata

Il debutto del balletto di MacMillan a San Francisco

di Elio Zingarelli
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Nell’anno che segue il cinquantesimo anniversario della première londinese arriva a San Francisco uno degli esempi massimi di dramma psicologico in danza: L’histoire de Manon di Sir Kenneth MacMillan. Il raffinatissimo coreografo scozzese dona nuova vita al personaggio creato da Prévost nel romanzo settecentesco Histoire du chevalier Des Grieux et de Manon Lescaut confezionando un balletto impegnato e impegnativo sul piano drammatico, psicologico e coreografico.

In scena al War Memorial Opera House dal 24 gennaio al 1 febbraio per 10 recite, DHN segue quattro cast che vede nei panni di Manon e di Des Grieux  Jasmine Jimison e Max Cauthor, Sasha De Sola con Alban Lendorf, Nikisha Fogo accanto a Aaron Robison e infine Dores André insieme a Harrison James.

Senza soffermarci sulle prove tecniche e interpretative dei singoli danzatori, che comunque sono state di rilievo, constatiamo la complessità dei ruoli contrassegnati da plurime sfaccettature e che per questo consentono ad ogni interprete un approccio al personaggio assai personale in ogni caso autenticamente consegnato al pubblico.

Grande ausilio per i danzatori è il valido connubio tra la coreografia e il prestigioso compendio musicale che attinge alle composizione di Jules Massenet arrangiate e orchestrate da Martin Yates senza utilizzare una nota dell’opera del compositore francese. Quelle melodie affidate alla San Francisco Ballet Orchestra guidata da David Briskin e Martin West fungono come balsamo al dolore, alla costrizione, alla rassegnazione e nel contempo come afflizione e tormento a un benessere e una letizia che non sono mai pieni e autentici.

Contrasti del tessuto narrativo che si riverberano nella coreografia improntata sull’accademismo classico ma trattato con grande espressività. Non solo i primi ballerini ma anche il corpo di ballo si dimostra presente, capace di esprimere e stare in scena con convinzione e consapevolezza di quello che fa e soprattutto del perché. Le sospensione e le riprese, i lift e le cadute, i rallentamenti e le accellerazioni, lo smarrimento e l’abbandono finale richiedono ai danzatori impegno, attenzione e cura del dettaglio, e al pubblico una dedizione per cogliere quelle minuzie che rendono cosi preziosa la trama coreografica che con disinvoltura rivive da ormai cinquant’anni. Ma forse complice della sua longevità è il lussuoso impianto visivo firmato da Nicholas Georgiadis nel 1974, e con il quale MacMillan coltiva una relazione artistica e di amicizia profonda e duratura.

Stoffe pregiate, parrucche voluminose, gioielli luminosi, carrozze dorate, specchi opachi, sedie imbottite, candelabri a quattro braccia, canne palustri contestualizzano, evocano, definiscono, particolareggiano e circostanziano senza sopraffare la caducità e la debolezza dell’esistenza umana che divampa nella cagionevolezza visibile di Manon prigioniera.

San Francisco Ballet in MacMillan’s Manon // © Lindsay Thomas

Ma dell’allestimento di Georgiadis (pittore oltre a scenografo e costumista) c’è un elemento che si impone per persistenza: ovvero, semplici lacerti di sacchi di iuta assemblati con eleganza formale che ricordano quelle composizioni d’Arte Informale che Alberto Burri inizia a restituire sulla tela proprio durante la sua prigionia in Texas.

Così dice l’artista italiano: “Le parole non mi servono quando provo ad esprimermi sulla mia pittura, perché essa è una presenza irriducibile che rifiuta d’essere convertita in qualsiasi altra forma d’espressione”. Allo stesso modo, quest’opera di danza, seppure frutto di una traslazione, ma ormai con i suoi connotati specifici e riconoscibili consolidati nel tempo, è irriducibile e forse irrinunciabile per l’esperienza di un primordiale rapportarsi con l’emozione e la psicologia umana che mette in gioco.

Alla fine, sullo sfondo e sulle membra della protagonista tutto ciò che resta sono solo brandelli di una vita deteriorata che sublimano una sofferenza assoluta il cui confronto comporta una sforzo di immedesimazione propizio a una crescita emotiva tale, in ogni caso, da agevolare negli spettatori un confronto non mediato da alcun confine culturale.

Photo Credits © Lindsay Thomas

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