Teatro come ambiente arricchito: è con questa definizione che la critica designava una decina di anni fa quegli sconfinamenti con cui l’azione scenica è portata a uscire dai propri luoghi tradizionali, per approdare in quell’ambito generalmente indicato come teatro sociale. Pratiche che, attingendo alle esperienze concrete della vita, riuscivano finalmente a dar voce, possibilità e mezzi a chi generalmente non ne aveva, divenendo strumenti di ridefinizione dell’intera comunità.
Quali mezzi adoperare, ci si chiedeva, per la comprensione e la valutazione di tali opere, caratterizzate da forti valori politici, sociali, educativi o addirittura terapeutici? Quale il loro effettivo valore artistico? Il superamento della dicotomia tra “teatro utile” e “teatro bello”, l’abbandono dei pregiudizi estetici e la ridefinizione degli apparati metodologici di valutazione, divenivano quindi gli strumenti per il corretto giudizio su una forma teatrale, fortemente caratterizzata dalla spinta “altruistica”.
Un impulso in apparente contrapposizione col sentimento egoistico insito nell’arte: il bisogno dell’artista di affermare sé stesso, la spinta alla base della creazione di ogni opera, che faceva affermare a Ben Vautier:
«Se l’arte è un’attività umana, il motore delle attività necessarie al rinnovamento è l’aggressività dell’ego. Non credo infatti che l’arte si basi sull’altruismo, l’arte è essenzialmente un gesto egoista».
Esiste quindi la possibilità di azioni teatrali il cui valore artistico non sia compromesso dagli intenti sociali dell’opera? I cui risultati siano oggettivamente apprezzabili a prescindere dalla prospettiva da cui si osserva il processo creativo e il ruolo dell’artista?
Rilevante in questo senso appare l’attività di una coreografa che da anni ha scelto di dedicare la propria intera attività all’impegno sociale, dimostrando che un fine “altruistico” non presuppone concessioni in termini di qualità.
Stiamo parlando di Sarah Taylor.
Personalità eclettica, attiva nel panorama della danza internazionale, Taylor, intrecciando la sua attività con quella dell’Accademia della Follia di Trieste, di cui è direttrice artistica, si dedica da circa vent’anni a una forma di teatro di danza di impronta sociale che porta al centro della sua attenzione l’individuo.

Sarah Taylor – Claudio Misculin
Di formazione classica, diplomata all’Australian Ballet School, con importanti approfondimenti compiuti a New York, alla scuola di Martha Graham, Taylor nel corso della carriera ha danzato in compagnie di rilievo, quali la Dancers Company Australian Ballet, la Bat Dor Dance Company di Tel Aviv, il Teatro Verdi di Trieste. Dopo aver interpretato, tra gli altri, lavori di John Butler, Matthew Diamond, Hans Van Manen, Ohad Narin, George Balanchine, ha iniziato una lunga carriera come maître de ballet e assistente alle coreografie, compiuta alla Deutsche Oper e alla Komische Oper di Berlino, all’Arena da Verona, al Teatro Massimo di Palermo, ma prevalentemente al Balletto di Toscana, diretto da Cristina Bozzolini, al Balletto di Roma e alla Gelabert Azzopardi Companya de Dansa di Barcellona.
Interessata da sempre alle attività di ricerca e alle sperimentazioni, Taylor è inoltre nota per aver partecipato al progetto EGGS (Elementary Gestalts for Gesture Sonification), incentrato sulla rappresentazione del gesto attraverso il suono, con finalità sia artistiche che didattiche e terapeutiche, insieme ai musicisti Maurizio Goina e Pietro Polotti, i cui risultati, pubblicati nel 2021, sono stati ampiamente discussi e esaminati all’università di Graz e in molte conferenze internazionali (Oslo, Londra, Barcellona, Atene, Milano, Lubiana).
L’incontro a Trieste con Claudio Misculin, fondatore dell’Accademia della Follia, nata all’interno dell’ex Ospedale Psichiatrico di Trieste (Misculin aveva fondato lì, nel 1976, il primo teatro di matti in Italia), ha completamente condizionato l’attività della Taylor, aprendo nuovi e inaspettati orizzonti nella sua attività.
Misculin era entrato in contatto a Trieste con lo psichiatra Franco Basaglia, principale artefice del radicale cambio di impostazione nella psichiatria italiana, cui si deve l’introduzione nel 1978 della legge 180 (detta appunto “legge Basaglia”), che portò alla chiusura dei manicomi e introdusse come strumento terapeutico, invece della reclusione, la riabilitazione e l’integrazione sociale dei pazienti. È proprio in questo ambito che Misculin inizia a operare, proponendo all’interno dell’ex-Manicomio un progetto teatrale e culturale quale strumento di trasformazione sociale: non teatro emarginato, né inteso come rappresentazione della marginalità, ma luogo di effettiva produzione teatrale.
La collaborazione tra Misculin e Sarah Taylor, avviata nel 2003, ha portato a sviluppi di grande interesse, sia per quanto riguarda la ricerca sul movimento in soggetti con disabilità mentale, sia per la qualità artistica, altissima, di spettacoli come Divercity@040 (2006). In quel caso, nove pazienti dell’istituto di Igiene Mentale di Trieste recitavano e danzavano accanto ad altrettanti danzatori del corpo di ballo del Teatro Giuseppe Verdi, intrecciando relazioni il motore delle quali era rappresentato da “l’irresistibile desiderio di toccare ciò che unisce le persone e non ciò che le divide”. Lo spettacolo, con musiche originali di Robert Perossa, Giorgio Scala, Gianfranco Pappalardo e i testi di Ronald Laing, potente rappresentazione di un’esperienza umana profonda e speciale, riscosse grande successo, partecipando anche a un festival internazionale del livello di Madness & Arts.
Quello di Taylor è quindi un teatro che opera ai confini, qualsiasi essi siano: geografici, etnici, culturali, di età, di sesso, in cui “il matto può diventare un talento artistico, a patto di creare opportunità, di esplorare e di mettere in scena altre maschere, oltre a quella unica e sovradeterminata di malato”.
L’abbiamo incontrata per conoscerla e parlare di questa durevole, coraggiosa e significativa esperienza.
Parliamo innanzitutto degli esordi, della lunga carriera di danzatrice.
Sono nata in Inghilterra e durante l’infanzia la mia famiglia si è spostata varie volte, fino a ritrovarmi a 10 anni in Australia. Ero una bambina molto sensibile e creativa: a 9 anni scrivevo già delle storie e facevo coreografie e per questo motivo mia madre mi iscrisse alla Scuola dell’Australian Ballet. Era un’istituzione molto rigida, i cui limiti mi aiutavano però ad andare avanti, senza rischiare di perdermi; anche io ero un po’ “folle” e la disciplina della danza è stata per me una salvezza.
Al termine della scuola ho iniziato a lavorare, ma essendo molto alta, non riuscivo a entrare nella compagnia nazionale, per cui ho deciso di lasciare l’Australia. Sono entrata quindi nella compagnia fondata dalla baronessa Batsheva de Rothschild a Tel Aviv e in questa formazione ho avuto l’opportunità di lavorare con importantissimi coreografi della danza neoclassica e contemporanea. È stata un’eccezionale lezione di danza e di vita e a un tratto mi sono resa conto di come nel contemporaneo possedessi delle tecniche, ma non disponessi di uno stile personale: ho deciso così di approfondire lo studio a New York, dove sono rimasta per un anno, sperimentando linguaggi al confine tra danza e teatro.
Una passione per la coreografia fin dall’infanzia; ci sono stati esperienze anche prima dell’Accademia della Follia?
Dopo essere stata a New York, ho deciso di tornare in Inghilterra e da lì, grazie a un amico, sono arrivata a Trieste, in Italia. Sentivo già il desiderio di fare delle coreografie, ma qui in Italia ho trovato delle gerarchie rigidissime. Ho pensato che per poter fare la coreografa, dovessi prima fare l’assistente alle coreografie e quindi ho cominciato con il Balletto di Toscana grazie a Cristina Bozzolini, che ha avuto da subito fiducia in me, nonostante fossi molto giovane di esperienza in questo senso.
Ho iniziato così a capire che cosa serve a un coreografo: alcuni hanno bisogno di qualcuno che ricordi i passi, altri di una persona che impari la musica, altri ancora hanno semplicemente bisogno di ispirazione. Io osservavo e studiavo questi professionisti – e sto parlando di nomi del calibro di Angelin Prejocaj, Mauro Bigonzetti, Amanda Miller, Virgilio Sieni, Fabrizio Monteverde – ma a un certo punto mi sono resa conto che era impossibile cambiare le gerarchie: facevo bene il mio lavoro, ma non sarei mai diventata una coreografa, perché il mio ruolo non era quello.
Per carattere non spingo mai, quindi per lunghi anni ho fatto l’assistente, ma dentro di me è sempre rimasta questa voglia, questa necessità di “creare”.
Non mi pare però che tu ti sia semplicemente rassegnata…
In effetti, al Balletto di Toscana, avevo conosciuto il coreografo Cesc Gelabert, il suo modo di lavorare mi aveva “aperto un mondo”, che forse toccava una sfera più profonda, quasi spirituale e in cui riconoscevo delle similitudini con il mio pensiero; così ho deciso di seguirlo a Barcellona, dove sono stata la sua assistente e maître de ballet per anni, in oltre quattordici produzioni.
Poi sono tornata a Trieste e lì è avvenuta la crisi: non avevo mai realizzato il mio sogno di dedicarmi alla coreografia e lavoravo in un ambiente un po’ troppo istituzionale. Io ho sempre creduto nella creatività e nella piena libertà di espressione e inoltre riconoscevo di avere un aspetto di follia dentro di me, così grazie a una psicologa, mi sono avvicinata all’ex Manicomio di Trieste e ho conosciuto Claudio Misculin e l’Accademia della Follia.
C’era già un legame profondo: il corpo di ballo del Teatro Verdi di Trieste, dove avevo lavorato per tanto tempo, aveva la sua sala prova all’interno dell’ex Manicomio. Entrare in quel luogo mi affascinava moltissimo, sentivo che lì c’era qualcosa che non si respirava dentro la sala ballo… Così in ogni pausa, uscivo dalla sala prove e andavo in questo spazio chiamato “Il posto delle fragole”, un luogo il cui nome era ispirato al film di Ingmar Bergman e dove si ritrovavano i matti per le prove teatrali. Ero completamente affascinata da questi personaggi, folli sì, ma tutti estremamente creativi, anche più di tanti personaggi che incontravo in teatro.

Divercity@040_Accademia della Follia.
E questa è stata la svolta?
Si, è stata veramente una svolta. Mi sono trovata a casa, in un posto che sentivo giusto per me. Potevo veramente sperimentare tutto quello che volevo: non c’erano pregiudizi o barriere, né per quanto riguarda i contenuti, né per le modalità di lavoro, e potevo farlo con artisti bravissimi, che sul palco avevano una presenza scenica straordinaria, perché non avevano filtri o inibizioni. L’unico limite era che non erano né danzatori, né attori, ma questo limite mi ha fatto trovare un linguaggio ancora più essenziale. Mi sono chiesta: “Cosa posso fare qui? Come posso esprimere le mie idee con persone che prima di tutto hanno un disagio mentale e che poi non sono ballerini?”.
È stata una sfida enorme, che mi ha completamente catturato il cuore e la mente. Mi sono resa conto che in tutto quello che avevo fatto fino ad allora, mancava una cosa importantissima: mi mancava l’aspetto sociale, quella parte dove l’umano sta al centro delle cose; non l’arte stessa, non gli spettacoli, non il linguaggio coreografico, ma la persona. E, posta la persona al centro di tutto – con la sua individualità, le sue fragilità, le sue malattie e i suoi disagi – da lì, ho cominciato a creare.
Avevo trovato il mio posto.
È anche documentato un nesso tra la danza e il miglioramento delle condizioni psico-fisiche di queste persone: possiamo parlare di danzaterapia?
È una cosa diversa. Io non ho niente, ovviamente, contro la danzaterapia o la teatroterapia; qualsiasi cosa aiuti l’umano per me è meravigliosa, ma quello che mi piace del luogo dove lavoro adesso è che qui si fa arte, qui si fa teatro. Ed è dal fare teatro che arriva il benessere, dall’imparare un ruolo, dall’imparare una coreografia, dalle discussioni che si hanno con il regista su cosa è meglio fare o non fare e a cui partecipano tutti. È un lavoro collettivo. Ho finalmente trovato anche un posto senza vere a proprie gerarchie ed è stata la prima volta nella mia vita. Ho davvero trovato la mia casa e ormai sono più di vent’anni che lavoro con loro.
E come sono le condizioni per chi si dedica a questo tipo di teatro?
Io dico sempre che l’unico problema è che tutto questo teatro sociale, teatro al margine, viene sempre considerato come un teatro di secondo piano, e secondo me questo aspetto deriva nuovamente dalle gerarchie che esistono in questo paese. In Inghilterra, per esempio, queste gerarchie non ci sono o perlomeno non sono così forti. Io chiedo sempre: perché uno spettacolo caratterizzato da testi importanti, una forte drammaturgia, disegni luce di alto livello e interpretato da individui bravissimi non è mai considerato al pari del teatro “tradizionale”? Nessuno, mai, riesce a rispondere a questa domanda. Tutto viene sempre diviso in categorie.
L’aspetto sociale quindi è per te qualcosa che porta un valore aggiunto all’arte.
Anni fa, sempre a Trieste, ho collaborato con Maurizio Goina e Pietro Polotti, due personalità eclettiche che avevano deciso di programmare un software per “sonificare” il movimento. Esistevano già sistemi di motion-capture, come quelli utilizzati dalla Disney, ma costavano una follia ed escludevano dal loro uso gli artisti indipendenti, più poveri. Loro si sono chiesti se anche un danzatore potesse avere questa possibilità, diventando un body jockey (termine mediato da disc jockey) e potendo emettere suoni muovendo il proprio corpo. Così abbiamo lavorato insieme per circa quattro anni ideando un sistema attraverso cui a ogni movimento corrispondeva la produzione di un suono specifico. Abbiamo partecipato a varie conferenze internazionali, presentando questo sistema tecnologico innovativo, totalmente al servizio dell’arte e economicamente accessibile.
Anche queste ricerche rispondevano a un mio bisogno: quello di essere immersa in un ambiente, in cui, oltre alla scelta artistica, si compie anche una dichiarazione politica. Per me tutto quello che fa una persona nella vita è una dichiarazione politica.

Divercity@040_Accademia della Follia.
Qual è l’atteggiamento di Trieste nei confronti dell’Accademia della follia?
Io credo che Trieste, città di confine, non solo demografico e geografico, abbia nella sua memoria storica la consapevolezza di essere un luogo speciale per la follia e per i folli. Trieste è orgogliosa della sua compagnia di “matti di mestiere, attori per vocazione”, uno slogan del gruppo. Siamo fortunati di avere il sostegno del Dipartimento di Salute Mentale che, tramite la cooperativa sociale La Collina, ci permette di avere due maestri a tempo pieno, una regista, Antonella Carlucci, e un secondo coach, ruolo in cui si alterano Alice Gerzil o Elisabeth Favat, oltre a Cinzia Quintiliani e Angela Pianca (presidente e co-fondatrice dell’Accademia), che lavorano per trovare le sovvenzioni e organizzare le tournée dei nostri spettacoli. E poi siamo grati al Teatro Rossetti di Trieste per la collaborazione e la coproduzione, divenuta ormai annuale.
A febbraio è inoltre uscito il documentario di Erika Rossi: Noi siamo gli errori che permettono la vostra intelligenza, un documento molto importante, perché finalmente traccia una parte della storia di Claudio Misculin e della sua banda di matt-attori.
Mi fa piacere ricordare che adesso ci sono anche altri gruppi in Italia e sono molto contenta di citare Vito Alfano, che sta facendo un lavoro eccezionale nelle carceri di Brindisi. Ho lavorato dentro il teatro per quarant’anni e questi spettacoli, spesso considerati di secondo piano, non raramente mi emozionano più degli spettacoli che spesso vedo in giro.
Cosa pensi dell’Ego riferito all’arte?
L’Ego serve a valorizzare le nostre idee, a darci la forza e il coraggio di affrontare il vuoto che spesso si prova all’inizio di una nuova opera o nel confronto umano. Ma spesso non siamo capaci di distinguere quando questo comincia a nuocere al nostro percorso, soprattutto nei contesti di lavoro di gruppo. Il condividere, il non attaccarsi ostinatamente alle proprie idee è importantissimo secondo me. Avere troppo Ego ruba tempo e spazio, lo ruba sia al cervello che al cuore, tempo e spazio che non vengono poi dedicati al pensiero artistico. In questo senso può intervenire il sociale, perché può dare a tutto un equilibrio diverso. A me non interessa più fare progetti dove questa componente sia assente. Il mio pensiero si può riassumere in una frase: “Schiavo dell’arte e non dell’Ego”.
Per concludere: cosa pensi del ruolo della follia nell’arte?
Io sono sicura che la follia è un’enorme ricchezza per l’arte. La follia nella sua forma più evoluta, genera il flusso creativo che diventa arte. Per questa ragione mi piacerebbe finire con due frasi, la prima è di Basaglia: “La follia esiste in ognuno di noi, così come esiste la ragione”. La seconda è di Franco Rotelli (psichiatra collaboratore di Basaglia e direttore dell’Ospedale Psichiatrico di Trieste), il quale, alla domanda su quale fosse stata una delle più importanti svolte della rivoluzione basagliana, rispose: “La presenza degli artisti”.
Crediti fotografici: Giorgio Mesghetz

