Come d’abitudine nelle stagioni pensate da Manuel Legris per la Scala, il secondo titolo della stagione viene dedicato alla danza contemporanea, e arriva nel momento dell’addio del Direttore.
Un trittico di balletti ben bilanciato dedicato ad una ripresa recente di Philippe Kratz, ad un capolavoro di fine secolo scorso di Angelin Preljocaj e infine ad una creazione di Patrick de Bana.
Solitude Sometimes di Philippe Kratz torna alla Scala dopo due anni dalla sua creazione per il Corpo di Ballo scaligero, e lo abbiamo rivisto con grandissimo piacere e qualche consapevolezza in più rispetto al debutto. In un’atmosfera molto astratta quasi ieratica i 14 ballerini con costumi senza elementi di distinzione si alternano in momenti di gruppo e solistici senza eccessivi protagonismi, danzando una coreografia ipnotica minimalista fatta di piccoli passi che poi esplode in momenti molto dinamici e fluidi. I passi dei danzatori si richiamano a piccoli gruppi e fra di loro c’è una connessione continua del movimento che passa da uno all’altro come un onda.
Il tutto si svolge in un’unica direzione da destra a sinistra, un papiro che si srotola, sfruttando su piani diversi la profondità del palcoscenico (infatti si apprezza di più dall’alto che non dalla platea). E il riferimento all’Egitto antico non è casuale visto che Kratz si è ispirato al libro dell’Amduat, ovvero di “ciò che c’è nell’aldilà”, il libro che racconta del viaggio del Dio Sole nella notte attraverso le dodici ore dell’aldilà per poi risorgere il mattino dopo. E un’analogia di questo si trova chiara in Solitude Sometimes che può esser inteso come un viaggio circolare che inizia con un solo ballerino che cammina sul posto e finisce nello stesso medesimo modo. La musica dei Radiohead e di Thom Yorke è perfetta nel sottolineare l’atmosfera rarefatta e quando parte il tema di “Pyramid Song” a tutto volume nella sala scaligera sembra che un solo respiro attraversi l’aria. Bellissime e evocative le luci di Carlo Cerri, un vero artista. Bravi i cast della compagnia di cui andrebbero fatti tutti i nomi perché hanno reso questo balletto davvero unico grazie alla loro intensità, precisione e concentrazione.
Rivedere dopo più di 20 anni Annonciation di Angelin Preljocaj, breve brano per due ballerine che interpretano Marie e l’Ange, è stato emozionante. Il pezzo di Preljocaj ha tutta la potenza evocativa per descrivere il momento sacro e il mistero dell’annunciazione. All’inizio c’è Maria, da sola, illuminata da un fascio di luce abbagliante con voci di bambini che giocano in sottofondo, poi improvvisamente parte il Magnificat di Vivaldi. È il presagio dell’arrivo dell’Angelo nel silenzio più totale, che si spezza con la Crystal music di Stéphane Roy creando una tensione drammatica palpabile che attraversa tutto il pezzo: l’angelo annuncia a Maria la sua gravidanza, Maria mostra la sua paura e infine accetta gli eventi ballando in sincrono con l’Angelo e cercandone il conforto. Infine l’angelo se ne va come era venuto con gli stessi movimenti a ritroso. E Maria resta sola e consapevole illuminata dallo stesso fascio di luce dell’inizio. Grande fu la scelta di Preljocaj di fare ballare il ruolo dell’angelo ad una ballerina e non ad un maschio che avrebbe reso tutto molto più terreno e meno sospeso. Nei primi anni 2000 allo Smeraldo e al Piccolo quando la Scala era agli Arcimboldi, le interpreti erano Beatrice Carbone e Luana Saullo che si alternavano nel ruolo dell’Angelo, e Lara Montanaro, Emanuela Montanari e Monica Vaglietti nel ruolo di Marie: ora alla Scala è stato interpretato egregiamente da due coppie, Virna Toppi con Benedetta Montefiore e Caterina Bianchi con Agnese di Clemente, tutte perfette come phisyque du rôle dove l’angelo è una figura più imponente e Maria più minuta. Personalmente ho amato molto il contrasto marcato fra la violenza ieratica dell’angelo e la fragilità di Maria della seconda coppia.
E ora veniamo alla creazione, ovvero alla Carmen di Patrick de Bana . Una piccola premessa: penso che quando si affronta un titolo così universale e vivo nell’immaginario di tutti grazie a numerose e diverse interpretazioni del passato, bisognerebbe trovare un’idea veramente disruptive, un punto di entrata originale e incisivo da cui dipanare una vicenda conosciuta da tutti. Altrimenti il rischio è quello di rimanere su una narrazione superficiale senza un’impronta precisa. Questa Carmen è visivamente molto spettacolare ma manca appunto di un’idea forte: cupa, nera, con improvvise incursioni di colore come nella scena del litigio delle sigaraie, di nuovo cupissima nel momento del toreador, con una coreografia un po’ ripetitiva, nello stile di De Bana dove nell’assolo di Don Josè si riconoscono i tratti nervosi e rigidi dell’assolo per Bolle su Ezio Bosso visto allo scorso Gala Fracci. Il personaggio di Carmen è tratteggiato come una femme fatale ma mancano le sfumature del suo carattere come l’amore per la libertà, la fragilità che sta dietro ad un’arroganza gitana e la tenerezza nei confronti di Josè.
Interessanti le figure della Morte e del Toro con cui Carmen balla giocando con il suo destino, forse l’idea andava sviluppata di più. In effetti si lascia molto al carattere degli interpreti e su questi, nei vari cast sono emersi il Don Josè di Claudio Coviello e la Micaela di Maria Celeste Losa. Il corpo di ballo ha dato come sempre grande prova di coesione.
Il pubblico ha apprezzato molto lo spettacolo perché il linguaggio usato ha il vantaggio di essere diretto e sicuramente presente nell’immaginario televisivo collettivo, e la presenza di étoiles come Roberto Bolle e Nicoletta Manni è una garanzia di ovazioni finali ma ci sono stati grandi applausi anche nelle serate degli altri cast.
C’è ancora un’occasione per vedere questo Trittico il 12 marzo in cui Alice Mariani sarà Carmen con Nicola Del Freo. Mentre il prossimo appuntamento del ballo scaligero è con l’atteso Peer Gynt di Edward Clug. Le prove già fervono.
Photo Brescia e Amisano