Gioacchino Starace: “le emozioni che si vivono sul palco sono uniche. Non esiste nulla di più bello e potente”

di Francesco Borelli
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Sei nato a Napoli e hai cominciato a muovere i primi passi in una scuola privata della tua città. Oggi sei un danzatore del Teatro alla Scala di Milano. Se ripensi agli anni della tua infanzia che cosa provi?

Mi sembra tutto irreale, quasi assurdo. Se c’era una cosa di cui ero certo, è che mai e poi mai avrei fatto il ballerino classico. Nella mia mente di bambino prima e adolescente poi, la danza classica risultava troppo schematica, quasi costrittiva. Come avrei potuto esprimere la mia gioia di danzare ballando il repertorio? Ma si sa, il tempo e l’esperienza modificano, spessissimo, il nostro modo di vedere le cose.

Ricordi i tuoi primi giorni in una sala danza?

Ho iniziato in una scuola privata della mia città e facevo solo lezioni di moderno e contemporaneo. Per me non era importante diventare un ballerino. L’unica cosa che desideravo era danzare. Nella mia famiglia poi non c’era nessun precedente ed io, sinceramente, poco conoscevo l’ambiente della danza classica.

Comunque, strano ma vero, non ho mai chiesto ai miei genitori di studiare danza. Tutto è nato perché alle elementari avevo una maestra la cui figlia insegnava danza. Fu lei a dire a mia madre che riteneva avessi uno spiccato talento per il ballo. Feci una prima lezione di prova e per quanto capii che quello fosse il mio mondo non trovai la giusta spinta per cominciare. Intanto la mia maestra insisteva e quando un mio compagno di scuola s’iscrisse lo feci anch’io. Da allora non ho più smesso.

Sei uno dei pochi danzatori del Teatro alla Scala con una storia “particolare”. Quando hai iniziato a studiare danza classica?

A sedici anni. Le lezioni di classico, prima di allora, erano state sporadiche e affrontate con pochissimo entusiasmo. Dopo qualche anno venne in scuola Ugo Ranieri in qualità di esaminatore. Vedendomi e ritenendo che fossi particolarmente predisposto, propose alla mia insegnante di farmi frequentare la scuola di ballo del San Carlo allora diretta dalla Signora Anna Razzi. Fu così che entrai al quarto corso, continuando a frequentare, al contempo, i corsi di contemporaneo della mia insegnante. Quello stesso anno mi presentai al Festival di Spoleto con una coreografia moderna e vinsi. In commissione c’erano la Iorio, allora Direttrice della scuola di ballo dell’Opera di Roma e il Direttore della scuola di ballo di Stoccarda. Entrambi mi diedero due borse di studio per le proprie rispettive scuole e d’accordo con mia madre e con la mia insegnante, fedele compagna e amica, scelsi Roma, dove mi diplomai nel 2015.

È idea comune che il danzatore debba iniziare da bambino lo studio della danza accademica in modo da favorire lo sviluppo della muscolatura, il lavoro della rotazione e, di conseguenza, una maggiore padronanza del corpo. La tua esperienza, però, racconta una storia diversa. Che cosa ha fatto la differenza?

Di certo una grande forza di volontà. E l’assoluta consapevolezza di essere più indietro rispetto agli altri e quindi di dover lavorare di più, senza risparmiarmi e concedermi sconti alcuni. Ammetto che la mancanza dei primissimi corsi la avverto. Ma si tratta di lacune su cui, ancora oggi, lavoro con dedizione e profonda umiltà.

Eleonora Abbagnato ha detto in riferimento all’ambiente della danza: “Questo è il mio mondo. E quando l’ho capito, è stato per sempre”.

È stato così anche per me. Nel momento stesso in cui respiri l’aria della sala ballo e ancor di più del palcoscenico capisci di non poterne più fare a meno. Ne hai bisogno come l’aria e più dell’aria. Le emozioni che si provano e si vivono su quelle tavole impolverate sono uniche e irripetibili. Non esiste nulla di più bello e potente.

Quanto è contato l’appoggio della tua famiglia? Molti ragazzi vivono certe velleità con vergogna oppure contro la volontà dei propri genitori.

Non dico sia fondamentale perché chi desidera tanto qualcosa, può ottenerlo grazie a una grande forza e volontà, ma per me è stato importante. Non ero il solo a credere nel mio sogno. Mia madre, mia nonna e la mia insegnante di danza, oggi tra le mie più care amiche, mi hanno supportato in tutti i modi in cui si può aiutare qualcuno. E se oggi sono qui, felice per ciò che ho realizzato e pieno di nuovi sogni per il futuro, devo dire grazie a loro.

Quali sono le qualità che, ballettisticamente, ti riconosci? E quali i limiti?

Di certo ho un fisico che mi aiuta molto. Aperture, gambe alte, piedi e una buona schiena sono qualità che mi riconosco. Forse però, riallacciandoci al discorso di prima, ho alcune mancanze di tipo tecnico. Le mie piroette sono lavoratissime e non date da una particolare attitudine al giro. Credo infine di avere, sul palco, un certo carisma.

Napoli, Roma, Milano. Com’è vissuta la danza in queste tre città?

A Milano c’è moltissimo interesse per la danza. Il teatro è sempre pieno e verifico, a ogni spettacolo e a ogni recita, quanto amore ci sia per il balletto e quanto rispetto e stima per i ballerini. Certamente il Teatro alla Scala gode di sovvenzioni e aiuti che consentono un lavoro più attento, cosa che il San Carlo e l’Opera di Roma probabilmente patiscono un po’. Devo dire però che la direzione di Picone e dell’Abbagnato ha favorito un notevolissimo miglioramento e ha permesso di donare ai corpi di ballo quel tocco d’internazionalità che ultimamente mancava.

Ricordi la tua audizione per entrare nel corpo di ballo della Scala?

Come potrei dimenticarla? Chiesi di fare un’audizione privata e partecipai alla lezione di riscaldamento prima della recita di “Excelsior”. L’allora direttore, Makhar Vaziev, si sedette davanti a me sin dalla sbarra. Ricordo la sensazione di panico e spaesamento che provai. Assistette all’intera lezione e alla fine mi convocò nel suo ufficio e mi comunicò che da lì a un mese avrei iniziato a lavorare in Scala. Toccai il cielo con un dito e chiamai immediatamente la mia mamma e la mia insegnante. Non potevo non condividere con loro la mia felicità. Il mio primissimo impegno fu “La bella addormentata” di Ratmansky.

Tecnica o anima. Che cosa fa il ballerino?

La tecnica è fondamentale. E il nostro corpo deve essere uno strumento al servizio di essa. Ma senza anima non si va da nessuna parte. Il ballerino prima di essere un atleta deve essere un artista. Altrimenti..che senso ha?

Oggi ti senti totalmente appagato?

No, totalmente no. Ho ancora tanta, tantissima strada da fare. Però quest’anno ho avuto grandi soddisfazioni: da “La sagra della primavera”, spettacolo che ho amato profondamente e che mi sfiniva ogni sera per le emozioni che provavo fino a “La Valse” con le coreografie di Stefania Ballone, Matteo Cavazzi e Marco Messina. Da Shéhérazade di Scigliano in cui interpretavo Shahryar, fino a Don Giovanni ne “Il giardino degli amanti” di Massimiliano Volpini.

Quale balletto vorresti interpretare?

“Romeo e Giulietta” di Kenneth MacMillan. Sarebbe un sogno poter interpretare Romeo. Chissà, un giorno, con tanto studio.

Il tuo futuro lo vedi in Scala?

Non lo so. Ogni tanto mi pongo questa domanda ma non so darmi alcuna risposta. Di certo, per ora, sto bene qui. La Scala mi sta regalando grandi opportunità e sto facendo esperienze belle e appaganti. In futuro si vedrà.

Oriella Dorella ha detto: “La danza mi ha permesso di addormentarmi come Carmen e di svegliarmi Gelsomina”. Che cosa ha donato a te la danza?

Forse sarà il tempo a dirmi esattamente cosa mi abbia donato la danza. Oggi, nonostante sia ancora giovanissimo, posso affermare di aver provato, grazie a questo lavoro, emozioni che non avrei mai potuto vivere. Solo grazie ad essa ho conosciuto maggiormente me stesso, sono cresciuto e mi sono scoperto, con le mie forze, la mia determinazione e anche le mie fragilità. E poi..che cosa avrei fatto se non mi fossi dedicato alla danza? Non ho mai pensato a un’alternativa. Sapevo che avrei fatto il ballerino. Che poi sarebbe stato al San Carlo, alla Scala o in TV, non importava.

Negli ultimi anni la danza maschile ha avuto un rilancio notevolissimo. A che cosa è dovuto secondo te?

Il programma “Amici” ha avuto un ruolo determinante. Il grande pubblico ha potuto costatare che la danza non era solo per donne ma anche gli uomini potevano farla e soprattutto farla bene. E poi, certamente, Roberto Bolle. Grazie al suo lavoro e ai suoi gala ha portato la danza classica tra la gente, facendola conoscere e apprezzare. Qualche giorno fa ho letto una sua intervista. Come non essere d’accordo con lui? La danza in Italia muore ogni giorno. I corpi di ballo chiudono e i ragazzi, almeno nel nostro paese, non hanno più aspirazioni e certezze.

Se Giuseppe Picone, attuale Direttore del corpo del ballo, ti chiamasse per far parte dell’organico del San Carlo di Napoli come solista o primo ballerino?

Sarebbe un grandissimo onore. Significherebbe tornare a casa dopo tanto tempo. La vita di un danzatore è un libro tutto da scrivere. Chissà..

Che tipo di ballerino sei?

Amo molto il modello di danzatore classico accademico ma mi riconosco una fortissima vena contemporanea. Se devo pensare a un ruolo che vorrei interpretare, oltre a Romeo, penso a Swan Lake di Matthew Bourne. Ho bisogno di raccontare una storia e attraverso essa esprimermi in libertà. Per chiarirci: mi sento un danzatore diviso tra la danza accademica e la danza contemporanea.

Quanto conta la bellezza?

La bellezza è importante ma non essenziale.

Ultimamente sei stato protagonista di Swan Lake della Jas Art Ballet con Sabrina Brazzo e Andrea Volpintesta e le coreografie di Giorgio Azzone.

 Nel luglio del 2017 fui invitato a danzare in un gala a Cortina; mi esibivo in un passo a due di Gianluca Schiavoni e in un altro tratto da “Cinderella” di Nureyev. Ospiti del gala erano anche Andrea e Sabrina e lì, li conobbi. Mesi dopo ricevetti la telefonata di Andrea in cui mi chiedeva se avevo piacere di danzare il ruolo di Sigfrid in una nuova versione de “Il lago dei cigni” con le coreografie di Giorgio Azzone. Ovviamente dissi sì. Danzare con Sabrina è stata un’esperienza bellissima e lei è una persona straordinaria; danzatrice meravigliosa, ètoile della Scala, partner dei più grandi ballerini del mondo eppure semplice e piena di entusiasmo come una ragazzina di diciassette anni.

Ricordo che un giorno venne in Scala a provare perché non potevo, per vari motivi, allontanarmi dal teatro. Si guardava intorno quasi intimidita. Mi disse che le sembrava strano essere lì. Questa è Sabrina: dolce, semplice, umana, priva di sovrastrutture. Non conosce la malizia né l’arroganza.

E poi “Roberto Bolle and Friends”..

Quando Roberto mi chiamò per partecipare al suo gala toccai, letteralmente, il cielo con un dito. Voleva riproporre all’interno dello spettacolo un passo a tre, “Canone in D Maggiore” di Jiri Bubenicek, che in tante occasioni aveva già danzato insieme al coreografo e al fratello di lui Otto. Fui scelto dopo essere stato visionato direttamente dal coreografo e iniziò un’esperienza che non dimenticherò mai in tutta la mia vita. Dalla sala prove allo spettacolo, fu tutto bellissimo. E, anche se solo per poco, mi sono sentito accolto nel mondo di Roberto che ho potuto apprezzare oltre che come artista grande anche come persona.

C’è un coreografo col quale ameresti lavorare?

Mauro Bigonzetti è un sogno realizzato. E poi Kyliàn, Bejart, Petit. Amerei danzare i loro balletti.

Tra i coreografi con cui hai lavorato, ricordiamo anche Luciano Cannito.

L’esperienza di lavoro con Cannito fu bellissima. Ero ancora a Roma e frequentavo l’ultimo corso della scuola di ballo. Fece un workshop su “Giulietta”, un lavoro che avrebbe dovuto portare in Russia al Bolshioi. Non mi disse neppure che mi aveva scelto per il ruolo principale. Capii di essere Romeo solo perché iniziando a montare la coreografia, mi trovai di spalle rispetto a tutti gli altri. Fu un’esperienza bellissima: Cannito è un uomo di grande cultura e di grandissimo fascino.

Come ti vedi tra vent’anni?

Forse ballerò ancora o forse no. Non posso sapere cosa accadrà nella mia vita. Di certo vorrei non avere rimpianti e sentirmi felice.

Crediti fotografici: Brescia-Amisano, Luca Vantusso

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