Cool Britannia, titolo dell’ultima serata presentata dal San Francisco Ballet, è l’espressione che è stata utilizzata per designare un periodo di grande innovazione e creatività che la Gran Bretagna ha vissuto tra gli anni Novanta e i primi anni Duemila, ispirato anche alla cultura degli anni Sessanta. Un effervescenza di cui si è nutrita Ranu Mukherjee che per questo titolo della stagione ha realizzato un sipario utilizzando forme angolari, profili di piante medicinali con colori sgargianti e luminosi. Per questo lavoro (risultato della collaborazione tra SF Ballet e Fine Arts Museums of San Francisco) l’artista, oltre ad attingere ai ricordi della sua esperienza di vita londinese, ha trascorso tante ora in sala, a osservare, studiare e lasciarsi ispirare dalle tre opere di danza che compongono la serata: ovvero, Chroma di Wayne McGregor, Within the Golden Hour di Christopher Wheeldon, e Dust di Akram Khan che non definiscono qualcosa di nuovo ma piuttosto ridefiniscono in maniera diversa quello che è già stato garantendone una sopravvivenza efficace e proficua.
Il blu dominante del sipario letteralmente “lascia il posto” a uno spazio bianco che subito stimola un esercizio di visualizzazione libera. Sono stati gli spazi simili a questo firmati da John Pawson a ispirare Wayne McGregor. Il coreografo britannico che è solito partire da un concept ben definito, per Chroma agisce in maniera insolita come inconsueto è poi l’esito della sua operazione. La musica viscerale, fisica, violenta di Joby Talbot and Jack White III, arrangiata da Joby Talboturta, rimbalza contro le pareti bianche di questo spazio zen che i danzatori sporcano e abbozzano con le distorsioni e le straordinarie forme dei loro corpi. La loro danza funge quasi da sollievo a quel vuoto abissale, puro, essenziale che restituisce immediatamente agli spettattori un senso del volume che urge una saturazione. Ma il bianco accecante, la musica irruente, le forme spigolose comunque non restituiscono una freddura; c’è una luce blu che rievoca la calma, la tranquillità, una sedazione che mitiga il passaggio alle atmosferi più caldi di Within the Golden Hour.
La riproposizione di questo lavoro di Christopher Wheeldon è un’occasione per festeggiare anche il 25° anniversario di Sea Pictures, la prima creazione del coreografo britannico per il San Francisco Ballet.
Anche Within the Golden Hour è stato coreografato proprio negli studi alle spalle del War Memorial Opera House per il New Works Festival nel 2008, per poi approdare sui palcoscenici più prestigiosi del mondo. Lo abbiamo visto anche a Roma nella stagione 2022/2023 del Teatro dell’Opera.
Questa volta, a San Francisco, si celebra il suo ritorno ma con una nuova “veste” ideata da Zac Posen, EVP e direttore creativo di Gap Inc, che firma i nuovi costumi ispirandosi alla natura della città, della Bay Area, all’incontro dinamico tra acqua, terra e cielo. Calati in un’atmosfera immersiva di ombre cangianti, i quattordici coreuti danzano sulla partitura originale per archi di Ezio Bosso, a cui si aggiunge il movimento Andante del Concerto per violino in si bemolle maggiore, RV 583 di Antonio Vivaldi. Il tessuto coreografico, la cui trama è intrisa di tecnica classica e sensibilità moderna, aderisce pienamente a questo tessuto musicale coinvolgente e trascinante.
D’altronde “la danza – sostiene il coreografo – raggiunge il massimo quando riesce a ricreare visualmente la musica.”
Ne consegue una visualizzazione articolata per quadri focalizzati attorno a sette coppie che si alternano tra i cambiamenti di umore, la giocosità del corteggiamento, la profondità del romanticismo, il coinvolgimento dell’innamoramento. Sono attimi fuggenti, ormai molto rari, che la luce fievole del sole nascente e morente riesce a lumeggiare, ma che noi, nel quotidiano, non riusciamo a cogliere perchè accecati dal bagliore frenetico delle ore centrali.
Il buio, invece, segnato soltanto da un lingua luminosa sottile, connota Dust di Akram Khan. Anzi, all’inizio c’è anche una luce tremula che solo illumina un unico danzatore a terra mentre si contorce tra gli spasimi dell’attesa. Aspetta l’altro, attende gli altri che in linea avanzano, si fermano e chiudono le loro mani in un pugno liberando polvere. É quella vitale, dalla quale tutto nasce, ma anche quella mortale, alla quale tutto si riduce.
L’ambientazione è funerea ma non letale perchè “c’è trasformazione nella vita e nella morte”, come sostiene Akram Khan il cui idioma coreografico si fonda sul Kathak, la danza classica indiana, mischiata alla danza contemporanea. Il danzatore solo si alza e dopo aver innestato i suoi armi superiori a quelli dei colleghi ai suoi fianchi inizia ad agitare le braccia mentre tutti gli altri lo seguono assecondandolo. È davvero impattante quest’onda che è un filo spinato, o una catena umana di solidarietà come unica salvezza, ma anche un eterno movimento che pur viene interrotto per lasciare spazio a una danza corale, tutta al femminile, sulla musica di Jocelyn Pook. Gli uomini ritornano nella trincea scavata nella terra, e quindi nella polvere, per salvarsi la vita, mentre le donne sono impegnate in una danza di affermazione, di nuovi ruoli, e di occupazione, di inediti posti di lavoro. Gli uomini costretti al fronte e le donne obbligate nelle industrie: una storia di ingiustizia e separazione di cui il coreografo non esegue una cronaca bensì un memoriale attraverso la forza dei corpi in movimento, durante la vita ma anche dopo, decomponendosi in polvere, ancora. È per questo che la parola Dust è sembrata ad Akram Khan l’unico titolo pertinente e significativo.
Il prestigio della serata, a nostro avviso, non consiste tanto nelle dinamiche della guerra, della relazione o dell’innamoramento, bensì in quelle del movimento. Nelle tecniche e nei metodi compositivi utilizzati per ridefinire dinamiche che spesso, e ormai da tanto tempo, si dipanano sulla scena, a volte anche con una certa monotonia.