Appello ai famosi: non abbassatevi i cachet

di Fabiola Di Blasi
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Uno per tutti, tutti per uno non è un motto che potremo mai adattare al mondo della cultura e dello spettacolo. Il perché è presto detto e non ha a che fare con l’individualismo (forse un po’ sì, ma non ne parleremo in questa sede) né col “mors tua vita mea”, piuttosto con l’inquadramento contrattuale di gran parte dei lavoratori dello spettacolo. Solo un numero esiguo è infatti dipendente a tutti gli effetti, magari a tempo indeterminato, mentre tutti gli altri sono precari, intermittenti, freelance, p.iva, liberi professionisti senza tutele e senza possibilità di accesso ai sussidi di disoccupazione (cosa invece possibile in altri Paesi).

Una delle prime cose ad apparire evidente quando ci si inserisce in questo settore è che ognuno pensa per sé ed anche i pochi tentativi di parlare a nome di tutta la categoria si risolvono in fumo perché, proprio perché privi di tutele, giusto o no che sia, ognuno deve preoccuparsi di sbarcare il proprio lunario.

In questo momento storico, però, stiamo assistendo, forse per la prima volta, ad un fenomeno interessante e incoraggiante. Sarà che l’intero settore è alla canna del gas, ma già durante il lockdown si sono creati gruppi di lavoro e confronto composti da chi opera nello spettacolo, sono nati progetti, associazioni, comitati, da cui sono uscite proposte, iniziative, fino alle manifestazioni in tutte le piazze italiane (la prima il 30 maggio 2020) tanto che anche i sindacati si sono interessati alla categoria, a questo numero enorme di lavoratori freelance colmi di speranza e voglia di ripartire ma privi di tutele e di potere.

Sembrava un sogno e forse lo era.
Mentre oggi su alcuni tavoli si continua a lavorare e si avanzano richieste e proposte al Governo da cui, non senza fatica, si sono ottenuti piccoli aiuti (i mille euro una tantum di agosto li dobbiamo ancora vedere, a dire il vero), su un altro fronte, esattamente come si temeva, c’è chi, magari poco consapevolmente, danneggia tutta la categoria. Si tratta dei famosi che si abbassano i cachet.
Potendo sfruttare il proprio nome, infatti, per cui vengono chiamati dai direttori artistici che pensano (giustamente) a riempire le sale, artisti che prima guadagnavano spropositi, sono oggi disposti al compromesso. Domando, perché lo fate? Alcuni di voi sono già nei libri di storia dello spettacolo e non finiranno nel dimenticatoio se non calcano la scena per un po’. Altri hanno chiaramente la possibilità di stare in piedi anche senza aggiudicarsi i pochi contratti al momento a disposizione. Non si propone qui di stare a casa fino al nuovo ordine, sarebbe difficile per chiunque, figuriamoci per un artista. Ma quando il compromesso è troppo grande, ne esce danneggiato l’intero settore. Se chi guadagnava 10000 euro a recita oggi è disposto a esibirsi per 2000, quanti colleghi sta lasciando a casa, alcuni forse per sempre perché il “nome” non lo hanno ancora? Quanti giovani talenti a inizio carriera temono il proprio sogno sia naufragato? Pensiamo davvero che la cosa sia temporanea? Che presto tutto tornerà al proprio posto? Il futuro sarà solo, come sempre, quello che stiamo disegnando oggi. Quello che si sta creando è un pericoloso precedente che potrebbe causare una sorta di ribasso generalizzato per tutti i lavoratori dello spettacolo, un livellamento dei compensi verso il basso che potrebbe costituire la regola di ogni contrattazione futura rendendo vani gli sforzi di chi in questi mesi sta lavorando a favore di tutto il comparto.

Perché piuttosto i volti noti non sposano la causa del settore a cui appartengono aiutando anche in termini di visibilità e impatto sulle istituzioni? Oppure, invece di svendersi, perché non organizzano eventi per sensibilizzare al tema della insostenibile situazione in cui naviga da lungo tempo il comparto cultura in Italia? Pensare che così la loro fama potrebbe addirittura crescere e sarebbero sommersi da applausi sinceri.

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