Andrea Volpintesta: forza e fragilità, l’essenza stessa di un uomo

di Francesco Borelli
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Conosco Andrea Volpintesta da un po’ di tempo. Abbiamo condiviso una meravigliosa esperienza di lavoro assieme e da quel momento ho sempre avuto stima di lui. Danzatore impeccabile, uomo di forte temperamento e allo stesso tempo gentile e cordiale. Questa intervista è stata un’occasione per scoprire aspetti di lui che non immaginavo. Forte certo, ma capace di mostrarsi fragile. D’altronde gli artisti sono così; un insieme imperfetto di sentimenti contrastanti. Quegli stessi sentimenti che rendono l’artista unico e in grado di regalarsi sul palco in maniera totale.

Ultimamente si è scritto e letto tanto di “Drakula”, lo spettacolo da te interpretato. Che cosa ha rappresentato dar forma e voce a un personaggio così complesso?

Interpretare Drakula ha costituito una piccola svolta nel mio modo di essere ballerino, puntando certamente su una tecnica pulita, ma anche, moltissimo, sull’espressività. Gli anni di esperienza maturati al Teatro alla Scala e gli incontri con i grandi danzatori/attori han fatto sì che focalizzassi la mia attenzione sull’attorialità prima di tutto. E che sviluppassi una più completa concezione della danza.

Nella tua felice carriera hai interpretato tantissimi personaggi. Com’è cambiato il tuo modo di vivere i ruoli che interpreti?

Drakula, oggi, è il risultato di tutto ciò che ho vissuto in scena fino a questo momento. Arrivato in Scala, ero un semplice ballerino, un buon partner, ma dovevo imparare. E presto ho capito che dovevo puntare su altri aspetti che non fossero la sola pulizia tecnica. L’incontro con Sylvie Guillem è stato decisivo. Con lei ho capito cosa significasse lavorare sul personaggio. Le prove di “Giselle” furono un momento di scambio totale. E poi Anthony Dowell, grazie al quale ho migliorato il senso dell’essere un interprete. Sviluppare la mia capacità espressiva ha poi permesso che migliorassi anche tecnicamente.

Come leghi i due aspetti? Tecnica ed espressività?

Non ero concentrato sul mio fisico. La danza fa si che si obblighi, molto di frequente, il corpo a fare cose che non sono naturali. E spesso si ottiene un risultato opposto. Soffermandomi sul lato artistico del movimento, ho ottenuto una naturalezza nel lavoro tecnico che mi ha stupito. Da “Manon” alla “Dama Delle Camelie” ho vissuto i personaggi che interpretavo in maniera più profonda. E i passi venivano quasi naturali.

Tu sei un danzatore “bello”…Quanto la tua fisicità ha aiutato la tua affermazione nel mondo della danza?

E’ stato di certo un grandissimo aiuto. Ciò non toglie che però, oltre al fisico, ci debba essere molto altro. In “Drakula” si vede moltissimo del mio corpo, ma sono sicuramente altre le cose importanti.

La storia di Drakula, nello spettacolo da te interpretato, è solo un pretesto. Ci spieghi perché?

La figura di Drakula è semplicemente un’evocazione. La storia, tratta di un gruppo di giovani emarginati che cerca svago in maniera alternativa. In un posto in cui si recano, trovano un vecchio baule e al suo interno rinvengono vari oggetti tra cui una maschera africana, dei bastoni e un mantello. Il mio personaggio si lega al mantello e attraverso di esso viene fuori il suo lato oscuro. Rivela una doppia identità fatta anche di violenza e malvagità. E’stato un lavoro interessante e profondo.

Tu hai un lato oscuro?

Penso di sì. Ho interpretato, nella mia carriera, ruoli da cattivo. Personaggi oscuri e malvagi. E ho sempre avuto una grande facilità nell’immedesimarmi. Attraverso essi sono riuscito a tirare fuori quest’aspetto di me. Che forse in parte mi appartiene.

Sei di origine calabrese. Quanto è stato difficile, ai tempi in cui hai iniziato a studiare danza, fare accettare le tue velleità? Come hai vissuto la consapevolezza di volere altro dalla vita rispetto a ciò che era abitudine o normalità?

Da bimbo ho vissuto un periodo difficile. Non tanto per la mia famiglia quanto per l’ambiente esterno. Facevo parte di una comunità in cui i ragazzi della mia età giocavano a calcio e sentivo la necessità di sentirmi parte del gruppo. Al contempo però, avevo attitudini diverse: ascoltavo la musica classica, conoscevo le opere, amavo la danza. Mi capitava di uscire da casa con uno zaino che conteneva le scarpette e la calzamaglia da un lato e gli short e le scarpe da ginnastica per giocare a calcio dall’altro. Per fortuna mio padre mi ha sempre appoggiato, ma con i compagni fu complicato. Oggi però, quegli stessi ex compagni di giochi, mi appoggiano e mi scrivono che sono orgogliosi di me.

Dal 1995 al 1997 lavori con l’Aterballetto. Come entrasti in compagnia?

In Calabria studiavo in una piccola scuola, ma con ottimi insegnanti. Dopo una parentesi alla scuola della Scala dovetti tornare a Cosenza per motivi famigliari e lì ho continuato a formarmi fino ai primi concorsi tra cui Varna e Rieti. Qui conobbi il maestro Litvinov il quale m’invitò a farmi vedere all’Aterballetto. Avevo diciassette anni. Il giorno dell’audizione Amedeo Amodio mi osservò senza battere ciglio. La sera stessa mi chiamarono per confermarmi il contratto.

Cosa ti ha lasciato questo lungo lavoro con l’Aterballetto?

Gli anni all’Ater hanno lasciato un’impronta indelebile sia a livello professionale sia umano. E’ stato grazie a questo che sono arrivato alla Scala pronto. Consiglierei a tutti di cominciare entrando in una compagnia piccola con pochi elementi, ma di grande qualità.

Perché hai lasciato l’Aterballetto per la Scala?

Desideravo entrare nella più grande compagnia classica esistente e interpretare i ruoli che, fino a quel momento, avevo visto interpretati dai mostri sacri della danza. In più erano gli ultimi anni della direzione di Amedeo e sapevo che, tutto ciò che avevo avuto fino a quel momento, non sarebbe più tornato.

Nel 1997 la direzione del ballo era appannaggio di Elisabetta Terabust la quale decise di puntare su di te. Che cosa ha visto in Andrea Volpintesta?

Feci un’audizione con altri trenta uomini. C’era solo un posto libero e mai avrei creduto di poter entrare nel corpo di ballo. Probabilmente ha intravisto qualità che potevano essere consone al livello della compagnia. Non lo so, di certo mi son ritrovato a interpretare da subito ruoli da solista o primo ballerino. Debuttai con “Agon” di Balanchine e poi seguirono il ruolo di Rothbart ne “Il lago dei cigni”, il passo a cinque de “La Bella addormentata” e mille altre possibilità. Forse allora non avevo il piglio giusto per affrontare quei ruoli e quei balletti, ma ho fatto del mio meglio e il risultato fu comunque ottimo.

La tua permanenza in Scala coincide con un altro incontro importante. Quello con Sabrina Brazzo. Cosa ti ha donato a livello professionale e umano durante i tuoi anni scaligeri?

Da giovanissimo ero una persona scontrosa, un po’ immatura per moltissimi versi e poco consapevole della realtà in cui stavo vivendo e lavorando. Grazie a Sabrina ho imparato cosa sia il controllo, a riflettere sulle cose, a capire ciò che è giusto e ciò che non lo è. Credo che in parte mi abbia salvato come persona e come artista. La nostra relazione è una missione reciproca. Ci siamo incontrati perché lei doveva salvarmi da me stesso ed io dovevo valorizzarla ancora di più.

Nel 2012 nasce Jas Art Ballet, la compagnia che vede tra i fondatori, oltre a te, anche Sabrina e Massimiliano Volpini, un magnifico cantastorie.  Com’è nato il desiderio di creare una realtà che fosse esclusivamente vostra?

Tutto è nato nel camerino della Scala di Sabrina. In ogni pausa ci si trovava e si parlava della nostra vita al di fuori del teatro. Un giorno le chiesi cosa avrebbe voluto fare da grande e lei mi rispose facendomi la stessa identica domanda. Io dissi che avrei voluto dare un senso a tutto ciò che avevo fatto e vissuto professionalmente fino a quel momento. Per noi e per tutti i ragazzi che, pur talentuosi e bravi, non hanno la possibilità di lavorare. Lei mi guardò con gli occhi spalancati e mi rispose che lo desiderava anche lei.

Qual è l’obiettivo della compagnia?

Vorremmo che la danza divenisse fruibile a tutti. Suscitare, anche in chi non ha interesse, l’idea che la danza è bella, fresca, vivibile. Il balletto non è solo quello classico cui si assiste in teatro. Ogni singola persona può goderne e amarla. La nostra prima produzione è stata “Il mantello di pelle di drago” ed è stata realizzata grazie all’interesse d’imprenditori e aziende che hanno deciso di puntare su una strada diversa rispetto a quella intrapresa fino a quel momento. Sponsorizzare se stessi attraverso un mezzo poco conosciuto ai più; la danza appunto.

Cosa ti auguri per il futuro della compagnia?

Mi auguro una stabilità economica che possa garantire il prosieguo di questo progetto ad alti livelli. Mi auguro, ogni giorno, che ci sia un imprenditore o un’azienda interessato a sovvenzionare la compagnia. A oggi, ciò che abbiamo fatto, e ne sono orgoglioso, è stato realizzato spendendo tutti i nostri risparmi personali. A volte mi capita di osservare Sabrina. La vedo parlare con i nostri ballerini, sistemare il body alle ragazze, aggiustare loro le punte. Con una semplicità disarmante. La guardo, e mi dico che è un etoile della Scala, che potrebbe essere e vivere come una stella. E invece è lì, con tutta la sua semplicità, sposa di un progetto comune che tra un milione di difficoltà stiamo portando avanti. Con determinazione. In quei piccoli gesti di Sabrina c’è tutto il senso del nostro lavoro. E dei nostri sacrifici.

Che voto ti dai come artista?

Non vorrei sembrare presuntuoso, ma mi darei un nove. Riconosco in me delle potenzialità in tal senso. Ma mi regalo questo voto soprattutto per ciò che gli altri mi hanno fatto notare. Persone di un certo calibro e valore. Ai quali ho sempre detto grazie.

Arrossisci ancora di fronte a un complimento?

Credo di non essere mai arrossito. Ma i complimenti mi piacciono e credo facciano bene al cuore. Se sinceri.

Che voto ti dai invece come direttore della Jas Art Ballet?

Devo e voglio darmi dieci. Sto facendo davvero il massimo per me, per Sabrina e per i nostri ragazzi.

E, infine, che voto ti dai come persona?

Mi do un sette. Devo ancora migliorare mille aspetti di me.  Devo cambiare il mio modo di vivere i rapporti interpersonali. Ho ancora strada da percorrere.

Come vedi la danza tra vent’anni? E come sarà la tua personale realtà artistica?

Sogno un corpo di ballo in ogni teatro d’Italia. E’triste assistere al degrado che oggi attraversa il nostro paese. Proprio noi che abbiamo una grande storia e una grande cultura in tal senso. E’necessario che esistano persone che investono in questo tipo di attività, che ci credano e che siano in grado di gestire realmente una realtà teatrale. Per quanto riguarda me, m’immagino solidamente a capo della mia compagnia, con al mio fianco Sabrina. Ho grande voglia di dare, ai ragazzi e al pubblico. Chissà, forse sarò maitre in qualche teatro. Vorrei riuscire, un giorno, a donare ciò che ho imparato e vissuto.

Alla fine dell’intervista ho riflettuto molto sul significato della parola “uomo”. Ho tentato di darne una definizione e ho capito che in Andrea è racchiuso il senso più stretto della parola stessa. Il suo modo di vivere la danza è esemplare. La sua voce, che racconta dei sacrifici affrontati per la compagnia, fa pensare a una vera e propria missione. E nei suoi occhi, quando parla di Sabrina e del loro simbiotico rapporto, c’è tutto il significato dell’amore. Quello che dura per sempre. Bello pensare che in un mondo che corre troppo veloce, esistano artisti e soprattutto uomini di tal fatta.

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